
Ore 17.15
Mille accessi. In sole tre settimane di vita del blog.
Grazie a tutti, davvero.
A momenti mi commuovo....
(e ora niente commenti spaccamaroni su ShinyStat che registra anche gli accessi doppi e sui cookies che scadono... )
Ciao Simone,
ti ringrazio della mail e ti ringrazio per il libro, che adesso leggo subito, molto incuriosito. Sono contento che le ricerche e le esposizioni di Blu Notte contribuiscano a fare una cosa che fino ad ora non abbiamo ancora fatto, noi scrittori: creare un immaginario che prenda spunto dalla nostra storia recente e ne metta in mostra i meccanismi. A tal proposito colgo l’occasione per rinvitarti ad una rassegna che facciamo dalle mie parti, a Casalecchio di Reno, in ottobre, che si chiama Politicamente Scorretto e che parla, appunto del rapporto tra il noir e i nostri argomenti. Se ti va di essere con noi ti faccio contattare, poi vedi tu. Intanto leggo e poi mi faccio sentire,
un saluto
La trasmissione qualcuno l’ha vista è qualcuno no. Ad ogni modo è stato parecchio interessante, specie quando De Blasio mi ha chiesto: “Perché non ne fa un film di questo CONFINE DI STATO?”, e io ho moderatamente risposto: “Perché non ho una lira in saccoccia?”.
Risate e auguri sul film che sicuramente verrà.
Speremm…
In ogni caso, se mai succedesse, voi siete testimoni, De Blasio vede il futuro.
Trasmissione a parte, però, mi piacerebbe raccontarvi un paio di cosette su Milano e sulla tivvù vista dal vostro pratico campagnolo.
Spronato dal sapiente editor con un post su questo medesimo blog, la famiglia Sarasso parte stipata nelle ruggente Smart Biposto verso le sette meno un quarto (notare che il collegamento era alle dieci…).
In statale, perché in autostrada i camion se la fumano la mia Smartina 600.
La navigatrice ufficiale (santa donna che mi sopporta e mi segue per mezza Italia a bofonchiare del mio libello. D’altronde m’ha sposato, che ci può fare, ormai?) è dotata di mappe ViaMichelin dettagliatissime, che in men che non si dica ci traghetta attraverso Trecate, Magenta, Vighignolo, Settimo e finalmente Milan (che l’è sempre un gran Milan…).
A quel punto imbocchiamo Via Novara, e un nugolo di stradine e stradette dai nomi impronunciabili (Harar, Dessié, Axum, ecc.). Tutto perfetto, dritti come un coltello, finchè…
Finché da vero maschio italiano alla guida decido che “Mi ricordo, da qui la so! Giriamo a sinistra!”
PERSI.
Tre quarti d’ora per ritrovare il dannato Corso Sempione.
Di nuovo sulla retta via, la gentile consorte mi ordina di parcheggiare (per evitare di trovarci in meno di mezz’ora a Bergamo).
Scendiamo e cominciamo a fare due passi. “Tanto, cosa vuoi che sia? Corso Sempione quanto sarà lungo?”
Beh, corso Sempione è lungo, ve l’assicuro.
Dal numero 96 al numero 27 a piedi. Risultato: vesciche che te le raccomando (merito anche delle scarpe nuove, messe per l’occasione. Ma sarò furbo?).
Di riffa o di raffa, sono le nove e noi si bussa alla guardiola della RAI.
Mi qualifico e l’usciere, se potesse, mi darebbe una pacca sulla spalla mentre mi dice: “Se vuole, io la faccio entrare, ma il collegamento è alle dieci, non ci sono né bar né intrattenimenti. Solo un salottino caldo con una TV….”
Hai capito la RAI?
Andiamo a prendere un bel caffè, va. Altri duecento metri (andare e duecento tornare) e praticamente zoppico nelle mie scarpette nuove nuove da ventiquattro eurucci in saldo.
Nove e trentacinque: finalmente è ora.
Tensione.
L’usciere mi dice che è facile, che non mi devo preoccupare. Mi fa pure un pass (guardate un po’ che sciccheria…) e via, al secondo piano.
Quando arrivo nello studio, mi accorgo di essermela immaginata diversa, la TV.
I corridoi sono di linoleum, proprio come li avevo descritti in Confine di Stato (notare che là parlavo del ’62), lo studio è quello del TG3 e la scrivania e il maxischermo (finto) sono in un angolo. Io mi siederò al centro della stanza, su una bella sedia girevole con dietro una fetta di greenscreen.
La trasmissione si vede nel monitor della camera che mi inquadra a un metro e mezzo dalla faccia (questo non lo sapevo, giuro. Ero terrorizzato dall’idea di dover parlare a una telecamera con un occhio rosso e ascoltare Carlo De Blasio in auricolare…).
In diffusione la trasmissione.
Tanto simpatica la gente che mi accoglie. Quel burlone di Guido che mi dà dell’acqua e mi fa contare al contrario (mannaggia a te…), un signore tatuato gentilissimo che mi infila il microfono sotto la camicia e un altro signore coi capelli ricci che mi fa dei segni e smanetta col suono.
Per il collegamento ci vuole un po’, e così faccio in tempo a rilassarmi.
Alla fine va tutto benone, De Blasio è gentilissimo e parla della dimensione visuale del romanzo.
In venti minuti siamo fuori onda.
Giusto il tempo di stringere qualche mano, salutare, gustare un gelatino alla frutta (meritatissimo) e tornare al nostro paesello con la consapevolezza di essere il primo della mia stirpe ad essere finito dentro la famigerata scatola d’intrattenimento.
Caro Giovanni,
grazie.
Grazie per il tempo che hai dedicato al mio lavoro.
Grazie per l’attenzione, l’incoraggiamento, la delicatezza.
Grazie per avermi trattato come un fratello minore e non come un allievo zuccone.
Sono cose che non si dimenticano.
Specie se il tizio che te le scrive è uno di quei cinque che, con i loro libri, ti hanno spinto a mettere nero su bianco le tue ossessioni.
E adesso veniamo alle critiche, punto per punto.
Partendo dal fondo.
Non c’è che dire: bella figura di merda.
Mi sa che a stretto giro scriverò qualcosa sul mio blog (http://confinedistato.blogspot.com/) per spiegare la caciana (si dice così da queste parti) e tentare di rimediare. A mia (parziale, esile) discolpa posso solo dire che, dovendo scrivere di Riviera partigiano, l’immagine che continuava a frullarmi in testa (merito del libro, ma credo soprattutto del disco degli Yo Yo) era quella tratteggiata dalle parole di Ettore. E giuro che l’ho letto Fenoglio, ma non è tornato a galla…
Così ho finito per citare col cuore ma senza la cabeza.
Chiedo scusa a voi. E anche se i diretti interessati non ci sono più, trovate il modo di riferirglielo…
Il golpe e l’incursione cubana.
Il golpe non era previsto. Non in questo volume, almeno. Ovviamente hai visto giusto: sto pensando al dicembre del ’70 e a Borghese.
Con la fumata bianca del colpo di Stato dell’Immacolata si aprirà Settanta, ossia il secondo volume della trilogia.
È altresì vero che la virata narrativa è stata dettata dalla fretta di chiudere. Ricordo quando scelsi di inserire Giangiacomo Feltrinelli nel libro. Fu, ancora una volta, colpa di Boatti. Mentre studiavo Piazza Fontana, il suo nome fece capolino, e mi innamorai del personaggio. Narrativamente la caccia all’uomo era una bomba, poteva dare un sacco di soddisfazioni. Sull’onda dell’entusiasmo arrivò pure l’incursione a Cuba. Fu il trasporto emotivo verso Ellroy, più che l’attenzione alla coerenza strutturale della storia, a muovermi.
E incursione a Cuba fu. A quel punto ero molto distante da dove ero partito. E la storia bisognava finirla con la chiusura di un conto personale. Quello tra Sterling e l’Editore.
Vedi, qua iniziamo ad avvicinarci ad uno dei punti fondamentali che separano la mia scrittura dalla vostra (che della vostra e del vostro “metodo” è pur figlia): io incedo volentieri nel mainstream e nel maranza. E subisco il fascino della tamarrata tarantiniana infinitamente di più di quello della verosimiglianza storica. Ma ne parlerò meglio quando sarà ora di tirare le orecchie al Mago.
Il Mago.
Ci siamo. Qui c’è il nucleo della mia poetica. E con quello che dirò di seguito non voglio dire che non condivido le critiche che mi hai mosso. Hai ragione riguardo alla sua inesistente funzione narrativa. Tanto più considerando che non ho nessuna intenzione di farlo tornare, almeno non nel secondo volume della trilogia.
Il Mago è la nota stonata, la voglia di inserire un flash da lsd dentro un manifesto pubblicitario degli anni Sessanta. Volevo raccontare la storia di Superman di Ennis. Volevo che fosse Ennis a raccontarla. E volevo che la raccontasse come Bill parla di Superman a Beatrix Kiddow nel capolavoro di Tarantino.
Questo vorrei fare. Vorrei essere in grado di costruire un bel meccanismo che parli del nostro Paese col gusto e la sensibilità del cinema di Mr.T.
Dunque, il Mago: ho voluto che uno squarcio sulla società americana stesse in bocca ad un tizio tutto matto.
Considerando le reazioni (a parte qualche fumettaro incallito e il mio primo editore, il Mago non piace quasi a nessuno), probabilmente ho imboccato la strada sbagliata. Ma le intenzioni erano precise.
Le tentazioni saranno ancora più forti nel prossimo volume. Tanto per dire, tra i vari personaggi, ce ne sarà uno disegnato sulla falsa riga di Maurizio Merli. Bisognerà, come dici tu, stare accuort…
Trama.
Trama non era un personaggio in origine. Era la risposta all’esigenza di mettere ordine nel casino del caso Montesi. Se io non capivo qualcosa su come funzionava la Storia, la mia perplessità passava a lui.
Il sapore di poca chiarezza mi è comunque rimasto in bocca anche dopo la chiusura del romanzo. E Trama ne ha patito le conseguenze.
La tua, però, è stata la sola critica nei suoi confronti. Benché io non fossi molto convinto della compiutezza del suo ruolo, a molti è piaciuto. A molti (direi a tutti quelli che hanno letto il libro) è sembrato necessario.
Lo è sembrato anche al palato difficile di monsieur Pietro Cheli (la parte su Ester è quella che ha amato alla follia). E tu sai quanto sia difficile andargli a genio…
Sterling.
Se parliamo della sua bidimensionalità, torniamo al discorso sulla poetica del romanzo. Sterling volevo che fosse un cattivo da fumetto anni Trenta. Da film di indiani e cowboy. Male puro, senza spessore. Non vorrei però dilungarmi qui, su di lui. Credo di aver spiegato abbastanza comprensibilmente la cosa nel DIETRO LE QUINTE presente nella prima edizione e tagliato (per ragioni di spazio e di prezzo di copertina) nella nuova Marsilio edition. Ti allego il file: se ti va di dargli un’occhiata (senza badare al fatto che è scritto molto sopra le righe) potrebbe chiarirti qualche idea sugli intenti.
Un abbraccio,
Simone
Tre anni fa (facciamo pure quattro) di mestiere non scrivevo: leggevo e basta.
Leggevo perché qualcuno a fine mese versava lo stipendio e leggevo just for fun.
Poi arrivò un tizio secondo cui ero proprio tagliato per mettere nero su bianco le mie ossessioni.
Che a forza di leggere, qualche cosa dovevo pure averla imparata, così diceva.
Ed era ora di togliere le rotelle alla bici.
Gli diedi retta, e il risultato è che oggi sto qui a raccontarvi dei miei libri.
Quando nemmeno speravo di fare questo mestiere, leggevo i libri di cinque tizi che scrivevano insieme. Romanzi di spie ambientati nel ‘500, libri con Cary Grant o John Coltrane per protagonisti, eccezionali storie d’avventura. Questi tizi mi hanno insegnato molto. A dire la verità, senza i loro libri, difficilmente avrei scritto i miei. Questi tizi hanno nomi veri: si chiamano Roberto, Giovanni, Luca, Federico e Riccardo.
Ma il mondo li conosce con un altro nome: quello che si sono scelti. Il nome della band.
WU MING.
E così niente più Roberto, Giovanni, Luca, Federico e Riccardo. Benvenuti WU MING 1,2,3,4 e 5.
Quando uscì la prima edizione di CONFINE DI STATO per Effequ, scrissi a Roberto (WM1), e gli mandai una copia del libro. Mi disse che l’avrebbe letto, ma non ce la fece.
Quando uscì l’edizione Marsilio, ognuno di loro ne ricevette una copia. Solo Giovanni (WM2) riuscì a leggerlo.
E lo lesse così a fondo da non riuscire a chiudere con quel libro nemmeno dopo l’ultima pagina.
Giovanni si scontrò con Confine. Ci fece a cazzotti. Il libro non gli andò giù.
E me lo fece sapere, con una lunga e bellissima mail.
Nella mail non è affatto tenero. E le critiche sono di quelle che non ti scordi.
Ma riuscite a immaginare cosa significa per un rookie come il sottoscritto quando uno dei tuoi maestri si prende la briga di sezionare il tuo lavoro così in profondità? Di andare a farti le pulci, affinché tu non commetta mai più gli stessi errori?
Qui di seguito vi riproduco la lunghissima mail di Giovanni Cattabriga alias Wu Ming 2 su CONFINE DI STATO.
Al prossimo giro parleremo delle mie risposte alle sue critiche.
Ancora una cosa: ATTENZIONE! SPOILER! In questo intervento, ça va sans dire, si parla del contenuto del romanzo (finale compreso). Se non volete rovinarvi la sorpresa, non leggete quanto segue.
finalmente posso scriverti dopo aver letto Confine di Stato. L'idea era di recensirlo sull'ultimo numero del nostro Nandropausa, in uno speciale sulla strategia della tensione. Terminato il romanzo, però, ho preferito fare il punto e mandarti queste righe.
Faccio una premessa: molte delle critiche che leggerai sono scritte senz'altro con il tono sbagliato. Ho impiegato un pomeriggio a raccogliere queste osservazioni e se l'ho fatto è perché credo nel progetto che stai portando avanti e penso possano servirti per le prossime scritture. Purtroppo, non ho avuto tempo per calibrare i termini, smorzare tutti gli spigoli, addolcire le amarezze. Se qualche frase dovesse ferirti, ti chiedo scusa in anticipo, lo spirito con il quale ti scrivo è l'esatto contrario, e cioè sostenerti, darti l'unico aiuto - magari del tutto superfluo - che sono in grado di dare.
La parte centrale di Confine, da pag 205 a pag 365, è davvero notevole. Incalzante, implacabile, scritta con i toni e le parole giuste. Ho fatto fatica a staccarmi, sebbene la vicende siano piuttosto note. Le duecento pagine che la precedono, invece, non mi hanno convinto. Non tanto per la lingua o per la struttura, quanto piuttosto per la scelta dei personaggi.
Parto da Andrea Sterling, perché i dubbi su di lui si ripercuotono inevitabili su tutto il resto.
Da un lato, c'è un problema di verosimiglianza. In un romanzo "storico" ci si può inventare tutto, l'importante è che sembri vero. Anzi: l'importante è che tutto sembri vero, anche gli episodi reali, che a volte, proprio perché "già successi", ci si dimentica di raccontare in maniera credibile. Alle mie orecchie, tutta la vicenda del reinserimento socio-lavorativo di Sterling suona proprio inverosimile. Non tanto per le posizioni ante-basagliane: si sa che le idee devono molto circolare prima di emergere in maniera dirompente. No. Il problema è l'esito: che nel 1954 un ospite di manicomio entri in polizia e diventi uomo di fiducia di servizi e generali è del tutto incredibile. Certo, un autore può sforzarsi di rendere credibile qualsiasi cosa, ma non è detto che il contesto glielo permetta. Per me Sterling è un marziano. Dunque l'intero romanzo mi dice che a uccidere Ester Conti è stato un essere venuto da un altro pianeta, lo stesso che poi ha piazzato la bomba sull'aereo di Riviera, alla Banca dell'Agricoltura e sul traliccio dell'Editore.
Ma più ancora della verosimiglianza, il mio dilemma è: perché?
Perché rinunciare a un personaggio con un passato definito, con un percorso "normale", con delle motivazioni complesse, per eleggere a protagonista nero della storia d'Italia un ex-internato, senza una formazione psicologica articolata, senza una traiettoria rintracciabile, senza paragoni con nessun altro coetaneo, in poche parole un alieno?
Tra l'altro, la scelta mi pare molto rischiosa anche da un punto di vista filosofico. Andrea Sterling è talmente altro che il romanzo finisce per suonare rassicurante: tranquilli, il male assoluto non è banale, non è davvero in mezzo a noi. Kurz e Sterling sono talmente esili, sottili, che la strategia della tensione sembra essere calata sul paese da un'astronave.
Il problema della verosimiglianza ritorna anche nella "soluzione" dell'affare Conti. Nel giudicare un romanzo innervato sulla Storia non bisogna commettere l'errore di sovrapporre narrazione e realtà, personaggi e persone. Non pretendo da Ellroy che mi racconti com'è andato davvero l'assassinio Kennedy. Gli chiedo qualcosa di più difficile: raccontarmi una storia che, con radicale verosimiglianza, culmini nell'assassinio del presidente e - pur non essendo vera - mi dica qualcosa di importante sul contesto di quella vicenda e dunque sull'America.
Nel raccontare il caso Montesi mi sembra che tu sia riuscito molto bene nel secondo obiettivo (dire qualcosa sul contesto), ma molto meno nel primo. Anche sganciando completamente Ester da Wilma, l'idea che la ragazza sia stata uccisa da una specie di agente segreto - per di più uscito da un manicomio e arruolato in polizia con un programma ante-basagliano di reinserimento socio-lavorativo - risulta molto, molto forzata. Forse si poteva trovare un ruolo per Mario Rossi/Andrea Sterling che non fosse quello di esecutore materiale. Tra l'altro, il fatto che Sterling sia sempre il braccio che esegue, rende la narrazione prevedibile. Fa fuori la Conti, fa fuori Riviera...ok, ho capito, la bomba di piazza Fontana la mette lui, L'Editore lo ammazza lui. Sempre lui. Di nuovo: il rischio è che la strategia della tensione appaia come un affare di Sterling - un suo compito da samurai - il male di un esiguo pugno di individui - la maggior parte dei quali non si sporca le mani.
Lorenzo Trama è un altro personaggio che mi sfugge. Non riesco in alcun modo a sintonizzarmi sulle sue ragioni. Impariamo qualcosa di significativo sul suo passato solo a pag 165 - 15 pagine prima che lo facciano fuori. Lui stesso, a pag 171, si chiede:
Perché? Cosa fregava a uno come lui della morte di una ragazza di cui sapeva tutto ma con cui non aveva mai scambiato nemmeno una parola?
Non lo sapeva.
Benissimo. Lui, come personaggio, può pure non saperlo, essere del tutto inconsapevole delle proprie pulsioni. Ma io, lettore, che il risultato di quelle pulsioni devo seguirlo sulla pagina, io quelle pulsioni ho bisogno di capirle. Senza mandarlo dallo psicanalista, anche solo attraverso quello che fa e dice, ma devo sapere. Invece anche io, alla seconda lettura, mi trovo a rispondere: non lo so.
Per finire con i personaggi, ecco Il Mago, che mi pare l'unica sbavatura di quel gioiello narrativo che sono le pagine su Riviera. Mi ha dato la sensazione di essere una figura appiccicata a forza sulla vicenda. In poche pagine conosco molte cose della sua vita, esploro il suo quartier generale... tutto mi dice che si tratta di un personaggio importante, che devo imprimere nella memoria. E poi pluf, scompare, non ha alcuna necessità, anche perché in questa fase del racconto la droga e i paradisi artificiali c'entrano poco, se mai era l'affare Conti a richiamarli. Io immagino che il Mago tornerà nel corso della trilogia, però una trilogia sono comunque tre romanzi, non uno solo, e ciascuno dev'essere valutato in sé. Nell'economia di Confine il Mago produce molto poco rispetto allo spazio che occupa.
Arrivo al finale.
Non sono riuscito a focalizzare bene la questione del golpe "rimandato" (presumo alla Notte della Madonna 1970). Da quel che ho capito Kurtz e Gelo vedono in Piazza Fontana la prima mossa per un colpo di stato, da consumare nelle settimane successive. Fanno piazzare la bomba a Sterling, succede l'Apocalisse, ma i carriarmati rimangono in garage. Perché? Perché mesi prima è uscito un libretto che sputtana tutta la strategia. A me non torna. Ma come, non lo sapevano che era uscito quel libretto? Si erano distratti, non erano passati in libreria? E anche se fosse: uno blocca tutta la macchina di un colpo di stato perché scopre che è uscita una pubblicazione? A me non la danno a bere. Com'è che invece lo scaltro e crudele Sterling accetta la spiegazione come fosse acqua di fonte? Com'è che non fa una piega?
Insieme all'ipotesi sul delitto Conti questo mi pare il passaggio narrativamente più debole di tutto il romanzo.
Poi scatta la caccia all'uomo, bisogna mettere a tacere l'Editore del libretto.
L'incursione nella baita austriaca è un pezzo di bravura.
La missione cubana è ancora una volta poco verosimile. Troppe poche pagine per dar ragione di una mossa così azzardata. Anche questa scena dà l'impressione di essere appiccicata in coda alla storia per permettere a Pete B. di fare il suo cameo e all'autore di abbracciare Ellroy.
Un'ultima cosa: occhio alle citazioni. Ci sono frasi che puoi togliere da un contesto e metterle in un altro senza crisi di rigetto. Ci sono personaggi che puoi prendere in prestito da un romanzo e usarli a tuo piacimento. Ma non sempre funziona.
A nessuno fregherà nulla, però tu hai messo in testa a Riviera alcune riflessioni di Ettore Bergamini, from 54, dove si fa esplicito riferimento ad alcuni partigiani piuttosto noti dalle nostre parti. Aeroplano, ad esempio, quello che caricava i tedeschi su un cavallo bianco. Era davvero uno degli uomini di Mario Musolesi detto Lupo. Che c'entra con un "bianco" come Riviera? Se Aeroplano fosse vivo penso s'incazzerebbe, e con lui Fonso e lo stesso Lupo. Gente tosta, quando perde la pazienza. E' un'ottima cosa sentirsi leggeri rispetto a certi dettagli, sapere anche lasciarsi andare. Ma più si vola e più bisogna stare accuort'.
un abbraccio,
Giovanni (WM2)