DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

mercoledì 27 aprile 2011

Raymond Benson e John Milius, HOMEFRONT - La Voce della Libertà, Multiplayer.it (2011)


LA STORIA


C'è stato un tempo in cui la Guerra Fredda mi faceva più paura di Freddy Krueger.
Correva l'anno del Signore 1988: a me e mio fratello era appena stato accordato il privilegio della TV in camera. Stavo per compiere dieci anni e quel microscopico schermo bombato in bianco e nero era meglio d'un bacio con la lingua strappato alla biondina del terzo piano.
La sera si guardavano robe spinte tipo I RAGAZZI DELLA TERZA C o DRIVE IN (i link wikipediani sono per gli under twenty).
Qualche volta COLPO GROSSO, ma di solito io mi addormentavo prima. Lottavo per tenere gli occhi aperti, ci provavo sul serio: niente da fare. Mio figlio ha preso da me, dev'essere una maledizione genetica: verso le dieci le palpebre diventano così pesanti che sviene. Qualunque cosa stia facendo (guardare le canzoncine su youtube, giocare con un ordigno rumorosissimo, cantare col papà), allo scoccare dell'ora X perde conoscenza.
Io uguale.
Almeno fino al 3 febbraio 1988.
Sera gelata, i miei alle 20.00 spegnevano i termosifoni e tanti saluti (siam mica Onassis! Se hai freddo, ficcati sotto le coperte!). Mercoledì: giorno sacro! Chicco, Sharon e compagnia briscola scalpitavano per allietarci. Incredibile a dirsi, nel pleistocene ottantino i programmi della sera iniziavano alle 20.30 precise. E, come per magia, alle 20.00 si era già cenato.
A pensarci adesso fa strano: qua, prima delle nove la lavastoviglie non è mai piena. E i film, ben che vada, cominciano a quell'ora. Quelli belli alle 21.30. Ventitre anni fa la lavastoviglie e Alain Delon se la giocavano nell'immaginario erotico di mia madre: allora si lavava tutto rigorosamente a mano, eppure alle otto tutti a letto (noi) o sul divano (mio padre).
Mah!
Non divaghiamo: mercoledì sera, dicevo. Dal mattino fantasticavo sui capelli della bionda Zampetti, ma allo scoccare dell'ora fatidica, qualcosa non va. Invece del telefilm di culto va in onda un filmetto con Terence Hill visto duecento volte. Io e mio fratello ci guardiamo straniti per un secondo interminabile: "Cazzo. Cazzo. Cazzo. E adesso?"
Lui ha cinque anni in più, per cui mi spedisce all'apparecchio a cambiar canale.
Lo zapping si faceva così, allora: uno in piedi (io, sempre io) accanto al televisore, incapace di vedere alcunché da quella distanza (fate conto che gli ultimi modelli prima dell'avvento dell'LCD avevano una definizione di 800x600 su uno schermo da 21". Potete immaginare la nitidezza del Brionvega da 14" cacati del 1988...) e l'altro comodamente seduto a letto, con una mano sul mento e gli occhi fissi allo schermo, attento valutatore d'intrattenimento.
Gira che ti rigira i sei canali disponibili (Italia 7 valeva la pena solo dopo una cert'ora, Telelombardia era meglio appena svegli), incappiamo in un film che sembra proprio fico.
Su RAI 2, tra l'altro, solitamente nota per le sue trasmissioni spaccapalle tipo MIXER (non fate quella faccia! Avevo dieci anni. E mio fratello 15. Mica ci son nato, storico: eccheddiavolo!)
I titoli di testa scorrono impietosi, mentre il cielo del Colorado si riempie di scie di condensazione di caccia militari e una bella culona stringe un kalashnikov lumandole esterrefatta. Dissolvenza al nero, caratteri cubitali:


Il film l'abbiamo guardato tutto, fino alla fine.
Non mi sono addormentato alle dieci. E nemmeno all'una.
Ho passato la notte con gli occhi sbarrati temendo l'imminente attacco delle truppe sovietiche.
Già, perchè quel filmone che - allora non potevo saperlo - avrebbe segnato il mio immaginario per sempre, così fottutamente pieno di carrarmati, elicotteri, bazooka, paracadutisti e fucili mitragliatori, narra della prima invasione di un esercito straniero sul suolo statunitense in epoca moderna.
L'esercito in questione è la gloriosa Armata Rossa, coadiuvata da bandoleros nicaraguensi e cubani armati fino ai denti. Film dell'84, girato al culmine dell'edonismo reaganiano, è ambientato nell'89, paradossale anno di sangue che vede lo scoppio della Terza Guerra Mondiale (fa sorridere, anzi tirare un sospiro di sollievo pensare che in realtà l'89 è stato l'anno della distensione, col crollo del Muro e tutto il resto). Il mondo è diviso secondo strambe logiche territoriali: l'America invasa dal Blocco Sovietico è alleata con la Cina (dal medesimo blocco nuclearizzata fino alle ossa).
URSS e repubbliche socialiste di mezzo mondo fanno comunella, patiscono la fame per colpa della peggiore carestia di sempre e decidono che è il caso di invadere la Terra della Libertà e prosciugarne le risorse. L'Europa, denuclearizzata dai Terribili Ecologisti Tedeschi appena saliti al potere, se ne lava le mani.
Mondo bizzarro, ve l'ho detto. In un posto del genere può succedere davvero di tutto: tipo svegliarsi una mattina, andare al lavoro come sempre, e prima di sera ritrovarsi partigiani sulle montagne, a tritare l'invasore russo a colpi di M16. Succede a un giovanissimo Patrick Swayze (reduce della 56ma Strada) e ai suoi amici.
La guerra del millennio va avanti per un bel pezzo, con perdite ingenti su entrambi i fronti, ma come finisce non ve lo dico. Così, se vi va di recuperare questo pezzo di storia in home video, la sorpresa finale ce l'avete intatta.
Ora, direte voi, perchè cavolo ti sei messo a raccontarci questa maledetta storiella nel bel mezzo della recensione d'un romanzo? Quando cacchio attacchi a parlare del libro?
Subito, non temete.
Se vi ho raccontato di ALBA ROSSA è perchè il regista del film che mi ha sconvolto l'infanzia è, guarda caso, il co-autore del libro in questione, HOMEFRONT (Multiplayer.it 2011).
Di lui e delle altre due mani alla tastiera parliamo fra poco.
La storia di HOMEFRONT non si discosta molto dai presupposti del capolavoro dell'84. L'idea era talmente buona che andava approfondita, tenuta viva, debitamente aggiornata. Questa volta Milius colpisce nel segno: al posto dei russi metteci i coreani. Coreani del Nord, ça va sans dire, che nel 2025 hanno trasformato il loro paese nella Grande Repubblica di Corea annettendo il Sud e allargando spaventosamente i confini, dopo aver inglobato Giappone e altri stati limitrofi.
L'invasione del Sacro Suolo Americano è preceduta da un giantesco IEM che scaraventa i figli dello Zio Sam in pieno medioevo, senza elettricità nè acqua corrente. Ma gli esiti sono simili a quelli dell'89: in tutta la Nazione sboccia la resistenza. Resistenza fatta in casa, come la cheesecake.
I partigiani sembrano non avere possibilità contro gli spietati musi gialli, e invece ogni tanto gliele suonano, complici alcune carrettate di tecnologia militare come si deve.
La sto facendo semplice, ma il romanzo è parecchio documentato: rintraccia le origini della crisi statunitense in avventimenti risalenti al nostro presente e descrive nitidamente il tracollo finanziario e militare fin dal 2001: prima le Torri, poi la crisi dei subprime, l'esternalizzazione e la robotizzazione dell'esercito, la denuclearizzazione progressiva, le concessioni (a braghe calate) ai perfidi speculatori del Far East e infine il colpo di mano da parte delle serpi dagli occhi a mandorla. E tanti saluti alla bandiera (sostituita da una coreanizzazione del celebre vessillo a stelle e strisce, con lo stesso effetto del tricolore biancorossoblu sui caschi delle SS durante l'occupazione del suolo francese), alla mamma (stupri ed esecuzioni di massa sono all'ordine del giorno) e alla torta di mele (prima le risorse naturali del Nord America vengono depredate, e poi i cuore del paese viene avvelenato. Non vi dico come se non vi guasto la sorpresa). Il punto di vista del romanzo è duplice: HOMEFRONT è un western dove i buoni sono buoni e i cattivi cattivissimi, non ci sono santi.
Il buono si chiama Walker, faceva il giornalista scandalistico per un fogliaccio losangelino (talmente naif che Hush Hush, in confronto, sembra Nuovi Argomenti) quando è scoppiato il casino. Ha abbandonato la Città degli Angeli in groppa a una moto e ha finito per diventare La Voce della Libertà, il meglio deejay rivoluzionario in circolazione.
Il cattivo ha un nome fichissimo e tarantiniano: si chiama Salmusa, come le maledette vipere coreane. E' un figlio di puttana di tutto rispetto: uccide, tortura, impicca, devasta e sacrifica innocenti senza il minimo rimorso. Benson, si sa, ha una fissa per i villain asiatici e c'è da dire che questo gli è uscito parecchio bene.
Il libro viaggia come un treno, dipinge il cupo scenario dell'invasione in maniera vivida e lascia aperte diverse porte su scenari internazionali paurosamente probabili.
Se l'avessi letto a dieci anni, probabilmente non dormirei da allora.

GLI AUTORI

John Milius è una specie di genio. In carriera ha cesellato capolavori immortali come la sceneggiatura di Apocalypse Now e ha diretto vere e proprie pietre miliari: Un mercoledì da leoni e il già citato Alba rossa, tanto per dire. Ma, se date un'occhiata a wikipedia, rimarrete di sale per la quantita di chicche che sono passate per le sue manone.
Tuttavia, non è semplicemente un illuminato. E' anche un pomposo ciccione fascista che indossa volentieri magliette come questa.
Negli anni Ottanta, in cui Reagan si limitava a covare la demenza senile che l'avrebbe sconvolto di lì a poco, l'atteggiamento a cazzo diritto di John gli dava un certo tono e lo autorizzava a dipingere i russi come il Male Assoluto; nel XXI secolo, questo manicheismo spietato suona un po' demodé. Specie se ce la si prende coi nordcoreani, ultimi baluardo del vetusto spettro comunista sulla faccia della Terra.
Il punto è che il vecchio John non lavora solo, ma si accompagna a un ex nerd texano con un gran bel paio di palle e una penna cazzutissima: Raymond Benson, il tizio a cui la defunta Gildrose (ora Ian Fleming Publications) dal 1996 affida le avventure di James Bond. E' colpa di Benson e della sua avversione per i musi gialli se sempre più spesso negli ultimi lustri 007 si è trovato a rischiare il culo in Oriente.
Ecco dunque spiegati la presenza di Salmusa, i caratteri bianconeri da film di cowboy e indiani, i dialoghi ruvidi e gli scontri a fuoco ad alto tasso di testosterone (scontri a fuoco da dieci e lode, senti a me).

LA TRANSMEDIALITA'

Se l'esperienza Homefront si chiudesse qui, parleremmo di un bel romanzo di genere, scritto da due signori con i giusti gradi sulle spalline. Ma il romanzo non è che la punta dell'iceberg dell'esperienza transmediale: a poca distanza dall'uscita del libro, THQ pubblica il videogame omonimo per PC, PS3 e XBOX 360. Lo sparatutto in prima persona è parte integrante dell'universo narrativo: se volete sapere cosa diavolo è successo alla cellula rivoluzionaria di Montrose, Colorado, vi tocca procurarvi una console o una scheda grafica all'altezza, imbracciare il fucile e buttare giù più coreani che potete.
Il gioco, va detto, è parecchio tosto. Io sono una pippa, ok, ma persino in modalità FACILE mi tocca ripetere i quadri mezza dozzina di volte prima di farmi largo in mezzo a montagne di cadaveri dagli occhi a mandorla.
Nel videogame non s'impersona Walker, bensì l'ex pilota di elicotteri Robert Jacobs, ora guidatore di Goliath. Al povero Rob succedono un sacco di cose pazze: tanto per dire, all'inizio del gioco sta per essere portato in compo di concentramento in Alaska e viene salvato dai compagni. Da allora in poi gli toccherà vendere cara la pelle a colpi di AK47 e lanciagranate.
I dettagli sono per i nerd: ecco perchè THQ ha messo in piedi un wiki come si deve, dove ogni particolare della storia è raccontato per filo e per segno.
A noi interessa la portata enorme della rivoluzione narrativa di cui Milius e Benson, pasciuti signori d mezza età (67 anni il primo, 56 il secondo) si fanno promotori. Le idee saranno un po' datate. E anche la retorica cazzodurista a stelle e strisce, per carità. Ma sta di fatto che qualcuno, finalmente, ha capito che nel XXI secolo le storie hanno smesso di esistere su un supporto solo e strisciano liberamente dalla carta alla rete, dall'LCD di casa all'IMAX 3D del multisala (è già in lavorazione il film di HOMEFRONT, che ve lo dico a fare: per anni si è cianciato di un remake di ALBA ROSSA. Ora il fottuto arcano è stato svelato...).
Crossmedia storytelling, è così che funziona di là dall'Oceano. E la bordata è tanto potente che l'onda d'urto arriva fino a qui. Grazie a Diio, nell'asfittico e vetusto panorama dell'editoria italiana, di quando in quando nasce un fiore. Quel fiore si chiama Multiplayer.it, e vale la pena spendere due parole sul favoloso lavoro che la piccola casa editrice di Terni (che stampa a Città di Castello) sta portando avanti.

L'EDITORE

I videogame hanno smesso da un pezzo di essere roba per ragazzini. Soprattutto perché i ragazzini che giocavano a PAC-MAN sono diventati grandi (spesso padri di altri ragazzini, a loro volta game addicted) ma non hanno smesso di giocare. L'industria videoludica, negli ultimi trent'anni, ha avuto un'evoluzione dieci volte più profonda e radicale di quella che ha interessato la macchina del cinema. I giochi elettronici hanno rubato al grande schermo, alla TV, al fumetto e alla narrativa cartacea codici espressivi. Li hanno rimaneggiati, adattati, interpretati. Hanno reso interattiva l'esperienza morbosamente voyeristica della settima arte. Ci hanno catapultati dentro alle storie.
Il rinculo della bordata ha colpito, di rimando, i media da cui gli ingegneri del videogame hanno imparato a raccontare. Da qualche anno non solo autori di best seller come Tom Clancy si sono dati una svegliata e hanno deciso di firmare alcuni giochi di grande successo (si pensi alla saga di SPLINTER CELL), ma i produttori di giochi hanno avvertito l'esigenza del pubblico interattivo di proseguire la narrazione anche dopo aver riposto il controller. E' nato un genere, quello dei tie-in videoludici. Romanzi ambientati nei mondi dei videogame. Qualche esempio: basta sfogliare il bellissimo catalogo di Multiplayer.it per rendersi conto della fantsmagorica offerta.
STAR WARS, RESIDENT EVIL, GEARS OF WAR, DRAGON AGE, MASS EFFECT, METAL GEAR SOLID, DOOM, GILD OF WARS, BATTLESTAR GALACTICA, HALO. Per ciascuna delle saghe citate, ci sono almeno tre volumi pronti. Spesso di più.
Ok, direte voi, ma che razza di paccottaglia ci stai vendendo? Romanzi tratti da videogame? saranno robetta per ragazzini...
E qui casca il somaro. Provate a leggerne uno. Provate, soprattutto, a dare un'occhiata ai nomi degli autori: la saga di Metal Gear è affidata interamente a Benson, la nuova trilogia di Halo a Greg Bear (plurivincitore del prestigioso Hugo e del Nebula), e via discorrendo.
Non tutti i libri in questone sono capolavori, beninteso, ma spesso capita d'incocciare in autentiche perle. Scritte come si deve, con le radici affondate in un immaginario solido e polimerizzato e, last but not least, con una grafica da dieci e lode.
Anche qui, il piccolo editore ternano dà un milione di punti a tanti colossi della carta stampata.
Le copertine sono spaziali, la qualità delle immagini devastante, il sito della casa editrice spettacolare, le cartelle stampa e i contenuti bonus in rete corposi e di grande qualità.
Qualità è la parola chiave: Multiplayer.it ha scelto un terreno di gioco difficile e poco noto, ha investito con coraggio e sostanza, e ha rifilato una lezione di stile a tutti quanti.
Dice: ma quindi? Davvero è tutto perfetto? Il romanzo sparatutto è fico e senza sbavature, il videogioco pure, l'editore anche, ma non c'è nemmeno un difettuccio in tutto il pacchetto HOMENFRONT?
Purtroppo uno c'è, e bello grosso.
E tocca farci i conti.

LA TRADUZIONE

La traduzione, ahimé, non è all'altezza. Nè del testo originale (che mi sono letto integralmente, perchè è poco carino criticare il lavoro altrui senza valide argomentazioni), nè degli standard in circolazione. Il romanzo è uscito a poca distanza dall'edizione statunitense, dunque immagino che la traduttrice e i revisori abbiano dovuto correre a perdifiato per consegnare il lavoro nei tempi stabiliti, ma i passi falsi sono davvero troppi per non segnalarli.
Errori grossolani, come locazione per location (luogo, posto), venti e ventisei al posto di 2026 (lo so che in americano si legge così, ma è l'anno, non l'ora...) e una borsata di altre cose del genere.
In generale, però, è proprio il tono del narrato a risentire della cattiva traduzione. Alcune peculiarità della sintassi a stelle e strisce, come l'estrema sintesi consentita dall'aggettivazione a tutto campo, se trasposte alla lettera si rivelano stucchevoli. E azzoppano il pathos del racconto.
La traduzione fa davvero un brutto servizio al romanzo. Intendiamoci, è comunque leggibile, ma se ve lo sparaste in originale, avvertireste davvero quel brivido che noi imbolsiti nostalgici del testosterone anni '80 ancora proviamo quando il sergente Gunny Highway sputazza truce: "E' meglio che prendi nota: sono cattivo, incazzato e stanco. Sono uno che mangia filo spinato, piscia napalm e riesce a mettere una palla in culo a una pulce a duecento metri. Per cui vedi di andare a rompere il cazzo a qualcun altro".
Ecco, per colpa della traduzione questa roba non c'è.
E, se ci pensate, quando si legge l'opera più importante di un vecchio geniale ciccione fascista, dettagli del genere hanno una certa importanza.

CONCLUSIONE

HOMEFRONT vale i soldi che costa? Sì, 19 eurucci si possono spendere. Che poi, se ve lo acchiappate su AMAZON, costa pure meno.
L'unico problema è che, appena chiuso il libro vorrete spenderne 63,99 per il videogame. O magari solo 46,99 per la versione PC... ma sai che c'è? Con 'sta scheda grafica gira e non gira, 'spetta che aggiorno! Magari mi acchiappo anche il controller XBOX 360... E allora ciao.
In più, se masticate l'inglese e avete avuto la costanza di leggere fin qui, vorrete dare un occhio pure alla versione originale, che costa solo 5,97...
Insomma, alla fine della fiera, vi avrò fatto spendere tra i 75 e i 90 euro. Ma vi sarete resi conto di cosa vuol dire raccontare storie nel XXI secolo.
Stare al passo coi tempi non ha prezzo, bella gente.
Per tutto il resto... che ve lo dico a fare?

martedì 5 aprile 2011

Una buona notizia e una cattiva. Prima la buona...

La buona notizia è che ho letto un libro favoloso.

E' uscito quasi un mese fa, in giro l'avrete visto senz'altro: in libreria, o sul paginone di qualche quotidiano. S'intitola MILANO CRIMINALE e l'ha scritto il mio amico Paolo Roversi.
E' uno di quei libri così fottutamente riusciti che avrei voluto scriverlo io, lo dico subito.
E' un libro che ho atteso tanto, sul quale avevo davvero un sacco di aspettative. Io e l'autore, l'ho scritto due righe fa, siamo amici. Ma siamo anche colleghi, con un percorso narrativo molto simile: abbiamo mosso insieme i primi passi nell'editoria nazionale occupandoci di temi affini (giallo Roversi, noir e storia io) e spesso le nostre strade si sono incrociate: vuoi per collaborazioni comuni (festival, incontri letterari, presentazioni. Paolo è stato il primo in assoluto a presentare Confine di Stato: nella gloriosa Libreria del Giallo di Madame Tecla. Correva l'anno del signore 2007), vuoi per coincidenze tematiche.
Proprio quest'ultima convergenza è il motore dell'attesa maturata dal sottoscritto intorno a MILANO CRIMINALE.
Ma andiamo con ordine: nel suo terzultimo romanzo, il quarto del ciclo di Radeschi, L'UOMO DELLA PIANURA (Mursia, 2009), Roversi per la prima volta si è occupato di un cattivo come si deve e lo ha fatto parlare in prima persona. Il suo Hurricane, il killer con un passato da bandito, cresciuto a San Vittore e fattosi le ossa per le strade della Milano dei Settanta, ha una parentela dichiarata con Vallanzasca e Turatello. Molte parti della sua vita passata assomigliano palesemente a quelle dei re del crimine meneghini degli Anni di Piombo.
La creazione di quel personaggio era un primo timido (riuscitissimo) tentativo di cambiare terreno di gioco. La sua scrittura, solitamente così slegata dalla storia e fieramente ancorata a fondamenta da giallista di gran classe, aveva poco a che fare con il passato. O, se andava a scavere in brutte e vecchie storie nere, non aveva troppo bisogno di un passaggio preventivo in biblioteca o in emeroteca. La fantasia e lo stile dell'autore bastavano e avanzavano.
L'UOMO DELLA PIANURA, però, ha cambiato tutto.
Quel primo sconfinamento ha acceso una miccia.
Una di quelle lunghe, per un botto coi controcazzi.
Ho fatto due conti: sono passati due anni da quando Hurricane è arrivato in libreria. Due anni in cui Roversi (uno scrittore da un paio di libri l'anno, per chi non lo conoscesse: uno che a vomitar battute alla tastiera tiene testa al sottoscritto senza fatica) ha pubblicato un solo titolo: PESCEMANGIACANE, un noir di ecomafia uscito per VERDENERO di Edizioni Ambiente. Chi conosce la collana sa che in genere i volumi non superano un certo numero di pagine. Sono storie brevi e taglienti, che sputano in faccia al lettore la verità sul malambiente e gli ecocrimini.
Duecentomila battute in due anni? Non è da Roversi.
Sicuramente sta lavorando a qualcosa di grosso... Così si saranno detti i suoi lettori in quei ventiquattro mesi trascorsi dall'uscita di L'UOMO DELLA PIANURA a un mese fa.
Avevano ragione.
Cambio di editore (da Mursia a Rizzoli), cambio di personaggi (spedito in panchina il buon Radeschi e sfoderati due character nuovi di zecca: uno sbirro testa dura e un bandito coi coglioni), sguardo coraggioso e corale su un periodo storico difficilissimo e poco indagato dalla letteratura di genere (Gli anni Sessanta, gli anni del boom e della rivoluzione), Roversi ha calato l'asso: MILANO CRIMINALE è il romanzo definitivo sulla ligera e sul crimine meneghino d'inizio anni Settanta.
La trama, in breve.
Poi i tanti pregi e pochi (pochissimi) difetti.
27 febbraio 1958: in via Osoppo, nel cuore popolare della periferia meneghina, ha luogo la Rapina del Secolo. Un assalto a un furgone portavalori messo a segno con strategia militare e sangue freddo cambierà per sempre il modo di delinquere nel nostro Paese.
Al noto fatto di cronaca (cui anch'io, anni fa, dedicai un racconto. Un Sentiero di Seth, uno spin-off del romanzo d'esordio di KAI ZEN, La strategia dell'Ariete) assistono due sbarbati: Antonio Santi e Roberto Vandelli. Entrambi, quel giorno - testimoni oculari della oscena e meravigliosa potenza del crimine - scelgono cosa faranno da grandi: il primo sarà uno poliziotto. Il secondo consacrerà la sua vita alle "dure". Lo sbirro e il delinquente, destinati a rincorrersi per quasi due decenni attraverso le pagine d'un romanzo portentoso.
Un libro che è la storia di due carriere (pulotto e durista), che tira in ballo l'archetipo per eccellenza (buono vs cattivo), ma che, soprattutto, spalanca una finestra sulla MILANO CRIMINALE degli anni ruggenti. Il grande pregio della narrazione di Roversi è quello di non stringere troppo il focus sui protagonisti, di lasciarli crescere coi tempi giusti, mentre il piombo dei Re della Rapina intorno a loro trasforma la patria del panettone in un nuova Chicago Anni '30. Banditi mitici come Leandro Lampis, il Solista del Mitra (chiaramente ispirato a Luciano Lutring) o batterie di rapinatori leggendari come La Banda Cavalieri - capitanata dal Bandito dai denti di Lupo (la ben nota Banda Cavallero, nata nei bassifondi di Torino e presto trasferitasi all'ombra della Madunina) - rubano la scena con colpi grandiosi e vite vissute al massimo tra puttane, champagne e auto di lusso. Si levano di torno solo quando i nostri due ragazzi sono abbastanza grandicelli per fare da soli: è allora che il giuoco comincia a farsi tosto sul serio. Santi, dopo un breve e intenso apprendistato inseguendo i migliori duristi in circolazione appresso al senior-sbirro Nicolosi, si ritrova a dividere la vita tra le botte in testa agli insorti in università, una moglie comunista da gestire e un nuovo tipo di criminalità troppo difficile da inquadrare.
A bordo del treno dei Nuovi della Mala, che viaggia a mille all'ora e non ha rispetto per nessuno, c'è invece Vandelli, che spaccata dopo spaccata, sgobbo dopo gobbo, inventa una maniera mai vista prima di essere criminali: giovane, sfacciato e imprendibile, il bandito ragazzino insegna al mondo di cosa è capace la sua micidiale batteria.
E mentre i ragazzi, ai lati opposti della barricata, diventano uomini, il mondo intorno a loro gira impazzito: si passa dai dischi di Buscaglione a quelli Celentano e degli Stones, i milanesi viaggiano per la prima volta in metrò, le donne e i compagni scendono in piazza a gridare che siam tutti uguali e l'uomo - nel frattempo - va sulla luna; esplode la bomba in Piazza Fontana, l'Italia entra nella storia del calcio mandando a casa la Germania per 4 a 3 e le strade si riempiono del sangue degli innocenti.
C'è la Storia, quella con la S maiuscola, in mezzo alle storie perfette del delinquentello cresciuto alla Comasina e dello sbirro di via Osoppo.
Di pregi, in questo libro, ce ne sono tanti: primo fra tutti, la leggerezza. MILANO CRIMINALE, un bel tomo da 400 e fischia pagine, scorre alla velocità della luce. E, lasciate che ve lo dica, scrivere un romanzo mondo del genere - con tutta la documentazione che questo lavoro comporta - e renderlo leggero come una piuma, non è un cazzo semplice.
Io lo so come vanno queste cose: ho passato un sacco di tempo in mezzo ai libri e ai giornali di quarant'anni fa per scrivere SETTANTA. Le storie ti entrano sottopelle ed è un attimo perdere la brocca. Tutto quell'universo ti esplode in faccia, prende il controllo dei tuoi personaggi, li trasporta in situazioni impreviste. E, mentre lo fa, tutto rimane faticosamente dominabile, perchè ci sono un sacco di informazioni, di particolari, dettagli, flash e domande (Un sacco di domande: chi diavolo era primo in classifica nel '71? Come si chiamava il capitano del Milan nel '64? E il ministro dell'agricoltura? E Mike Bongiorno che cacchio di trasmissione faceva nel '75? E la signora Longari? Mi è caduta sull'uccello è prima o dopo Piazza Fontana?).
Ribadisco: già stringere le briglia di due o più storyline non è uno scherzo. Se poi le linee narrative devono essere immerse in un preciso contesto storico, il bordello è doppio. Perchè è proprio al clou della scena d'azione, al top di quella romantica oppure nel bel mezzo di quel dialogo fondamentale per la comprensione della complicata architettura del romanzo, che quella fottuta vocina nella testa si mette a urlare: PIU' PARTICOLARI! PIU' CRONACA! PIU' AMBIENTAZIONE! PIU' COSTUME! SE NO NON SEI CREDIBILE!
SE NO NON SEI CREDIBILE!
E allora, vacca merla, ti tocca mollar giù tutto e andare a scartabellare gli appunti per vedere che combinava il Mike nazionale e sbatterlo in sottofondo, nella tv accesa nel salotto dove i tuoi personaggi discutono (ma la TV era già a colori? No no, i colori arrivano dopo il '79... caaazzo...).
Un vero strazio. Ma è la parte del gioco che lo rende così fico.
Alla fine, tutti se ne accorgono che è molto più cool che il tuo personaggio dica: "Sbattitelo in culo quel ferro, sbirro!" dopo aver fumato una Muratti e aver ascoltato Se mi lasci non vale al jukebox a gettoni. Se l'avesse sbattuta lì a muso duro, quella frase da brillantone anni Novanta MADE IN QUENTIN TARANTINO, i lettori avrebbero subito puntato il dito esclamando: "Ma che c'azzecca? Mica si parlava così, allora..."
Ora, invece, grazie alla Muratti e alla voce del caro vecchio Julio, il pubblico si sente in diritto di esclamare: "Che ficata! Anche allora si parlava sporco! Com'è moderno questo diavolo d'un libro!"
Funziona così.
Per fare un buon romanzo storico, la Storia la devi studiare, impastare, schiacciare e pressare come le patate nello schiacciapatate. Poi sentiti libero di aggiungere uova (i tuoi personaggi, la tua storia) e un pizzico di farina (quello che i critici dei giornali chiamano stile), ma sappi che alla fin fine, anche se li imbottirai di ragù (copertina, comunicazione, pubblicità, marketing) quegli gnocchi che tu chiami "Il mio romanzo storico" sapranno sempre più di patate che d'altro. Dunque vedi disceglierle con cura, quelle fottute patate.
Ci vogliono attenzione e cura per fare un buon romanzo storico.
Ma cura e attenzione non sono sufficienti per rendere il complesso d'informazioni ambientali tanto robusto da informare e rallegrare e tanto leggero da scivolare tra le righe.
Per un lavoro del genere ci vuole talento.
E qui, lasciate che ve lo dica, il buon Roversi ha dimostrato di averne a pacchi.
La maturazione iniziata con L'UOMO DELLA PIANURA è finalmente venuta a compimento. Mi auguro (da lettore) e gli auguro (da scrittore) una lunga serie di romanzi del calibro di MILANO CRIMINALE. Delizia per le nostre librerie.
Orgoglio per la sua hall of fame.
Ok, direte voialtri là fuori, abbiamo capito che ti è piaciuto.
Ma 'sto benedetto libro è proprio senza difetti?
No, per carità. American Tabloid è perfetto.
Il Pendolo di Foucault
è perfetto.
Q
è perfetto.
Romanzo criminale, cazzo: quello sì che è perfetto.
Questo romanzo non è perfetto.
Non è l'equivalente meneghino del capolavoro di De Cataldo sulla Banda della Magliana.
Però, nonostante tutto, i difetti rimangono pochissimi.
- La lingua, anzitutto. Con un titolo del genere, i dialoghi in milanese sono decisamente troppo pochi. E troppo approssimativi. Alcune scelte linguistiche riguardo alla grafia del dialetto meneghino non mi soddisfano. Ma io son fissato coi dialetti, lo sapete. (Per contro, mi piace molto l'uso disinvolto che viene fatto dei termini gergali riguardanti le rapine e il mondo della mala: niente spiegazioni. Se non un dizionario alla fine).
- Le scene di sesso potevano essere più esplicite. Ma io son fissato con le scopate pirotecniche, lo sapete.
- Il narratore è un po' troppo monocorde. Gli capita poco di frequente d'incazzarsi o incendiarsi a seconda dell'umore del personaggio di cui narra. Ma io ho letto Genna, maledetto lui. E non riesco più a togliermelo dalle testa, lo sapete.
- Infine, l'ultima parte sui serial killer a me pare di troppo. Ma forse mi sbaglio. In fin dei conti, anche quello è un nuovo modo di intepretare il crimine.
Per il resto, siore e siori, godimento puro.

Ricapitolando: è uscito un romanzo strepitoso. E ho avuto la fortuna di leggerlo poco dopo il suo arrivo in libreria. Sabato prossimo, 9 aprile, avrò anche il piacere di presentarlo nella mia città, Novara, alla Libreria Lazzarelli, in Via Fratelli Rosselli 45 (In centro, Portici Teatro Coccia) alle ore 17.30 in compagnia dell'autore.

E questa era la buona notizia.
La cattiva è che per poco non ho rischiato di giocarmi tutto: libro e presentazione.
Già, domenica scorsa sono finito in ospedale. E ne sono uscito solo oggi.

Una storiaccia. Ma non voglio annoiarvi, per cui sarò breve.
Vi dico solo che in questa brutta storia c'entrano le mie vecchie maledette tonsille. Un medico della mutua docile e incompetente. Un po' di strapazzo lavorativo. E la fottuta macchina burocratico sanitaria italica.
Special guest star: l'art director della più prestigosa discotesca del circondario.
Ma andiamo con ordine.
Sto male da tre settimane. mal di gola, ma niente che mi butti giù così tanto da non risucire a lavorare. Niente febbre, tanto per capirci, anche se deglutire è uno strazio e gli antibiotici fanno e non fanno. Vado dal medico giovedì scorso; lui mi dice: "Ehi, non è poi tanto male la tua gola, ragazzo! Fatti un tampone e rilassati. Quando avrai i risultati, ti darò io l'antibiotico giusto..."
Ok, nessun problema. L'indomani vado a fare il tampone e il tizio corpulento che si occupa della mia gola sentenzia secco: "Giovedì gli esiti! Ma non prima delle 17.30, eh!"
Cazzo, penso io. Mancano un sacco di giorni a giovedì (all'epoca ne mancavano sei. Oggi ne mancano ancora due, pensa te...). E se nel frattempo peggioro?
Nella testa rimbombano le parole rassicuranti di quel geniaccio del mio dutur: Ma non ti preoccupare! Rilassati! E già che ci sei, in attesa dell'antibiotico giusto, fatti queste pastigline di Sgonfia Sgonfia...
Io le pastigline di Sgonfia Sgonfia me le faccio volentieri. Tre al giorno, come dice lui.
Ma non fanno un cazzo. Poco male, penso: lui è il dottore e io non ho la febbre, per cui vado avanti a lavorare senza problemi.
Così venerdì pomeriggio inforco la Sarasso-Mobile e volo alla volta di Asti. Appuntamento in radio (Primaradio) con l'amico libraio itinerante Davide Ruffinengo. Pomeriggio di chiacchiere ai microfoni e cena in quel di Soglio. Cena con l'autore; con gli autori, in effetti. Siamo in due: io e l'ottimo Enrico Remmert. Ad accompagnarci attraverso la selezione di bolliti da dieci e lode c'è anche l'amico Davide Ferraris della libreria Therese.
Nonostante io non sia proprio in forma, la serata scivola via leggera e il pubblico presente pare apprezzare la nostra performance.
Fin qui tutto bene.
Dormo a Soglio: a metà notte mi sveglio in preda ai brividi. Una roba tipo febbre a Quaranta.
Siccome il mio medico dice di non preoccuparmi, nemmeno la misuro. Inghiotto due tachipirine e mi rificco a letto.
La mattina dopo riemergo sudatissimo e sfebbrato dalle coltri.
La gola è un inferno, ma io me ne sbatto. Tanto ho le magiche pastiglie Sgonfia Sgonfia.
Torno a casa, pomeriggio in centro con famigliola e presentazione del grande Malvaldi alla Lazzarelli. Gola malino, cena a base di sushi (un fottuto tormento).
Notte più o meno insonne.
Risveglio di domenica in puro panico: gola gigantesca, voce azzerata.
Mi sa che le merdose Sgonfia Sgonfia non fanno un cazzo...
Non c'è tanto da menarsela: vado al pronto soccorso.
Quando mi fanno passare davanti a una ragazzina che si è rotta in una gara di judo, annuso l'aria: non è buona.
Quando la dottoressa di guardia chiama la sua collega perchè non ha mai visto niente del genere, io penso: "Perchè è una sbarbata d'universitaria al terzo anno".
Quando però la sua collega con tanto di camice col nome si gratta la testa pensierosa e mi spedisce d'urgenza per un consulto in otorinolaringoiatria sono certo che si tratti di cazzi amari.
Vado su al terzo, aspetto un po'.
Poi un dottore di quelli giusti mi dice di aprire la bocca, dà un'occhiata allo scempio al posto della mia tonsilla sinistra e poi parla chiaro: "Qua tocca incidere e drenare, bello. Ti farà un male cane, ma se non lo faccio sono siamo nella merda..."
Ok, non si esprime proprio così, ma nella mia testa il suo "Signor Sarasso, l'aspirazione dell'ascesso tramite siringa e la successiva incisione col bisturi - il tutto con l'unico conforto d'un infefficace anestetico locale spray - non saranno di certo le esperienze più esaltanti della sua vita..." suona come: "Sono caaaaaaaaaaaaaaaaaazzi, amico!"
E poi è solo un'affare di sangue, pus e ferri affilati, gente.
Alla fine l'infermiera mi dice che sono stato piuttosto coraggioso a non lamentarmi.
Che lei - che ha cinquant'anni e il mestiere lo fa da venticinque - al posto mio sarebbe andata in terra lunga e tirata. Io sorrido, abbozzo un: "E' come andare dal dentista. a parte i conati di vomito..." in realtà penso: "MACHECCAAAAAZZOOOOO!!! Se il medico me l'avesse detto più di un secondo prima di entrare in azione, quello che aveva in mente per la mia gola, avrei tagliato la fottuta corda, altro che coraggio da cow boy del mio sedere.
Invece la corda non l'ho tagliata.
Loro hanno tagliato me e adesso va meglio.
Mi dicono che di tornare a casa non se ne parla. Mi tocca star dentro un paio di giorni, sotto antibiotici e a digiuno. Solo liquidi in vena: la religione della flebo.
Per la prima metà della giornata mi annoio a morte e medito la fuga.
Poi arriva un tipo geniale a tenermi compagnia.
Stesso problema, stesso trattamento. In un attimo siamo fratelli.
Non abbiamo un cazzo in comune (io rosso, grosso e scrittore; lui nero, palestrato, sportivo e art-director), ma ci intendiamo da Dio.
Due giorni a imbottirci di medicinali, mangiare un bel niente e sparar cazzate.
Discorsi assurdi: da Pennacchi a Stephen King a Lele Mora, passando per THE SOCIAL NETWORK (visto: niente male) e il culo di Belen (visto anche quello. Niente male neppure lui).
Stamattina, il verdetto: io esco. Con la promessa di tornare il 14 a farmi dare una contrallata. Se le mie tonsille non si rimettono in sesto, tocca fare ZAC! ZAC! (fa proprio così il dottore cazzuto: ZAC! ZAC! con la manina. Li mortacci sua...)
Fanculo, bambine, vedete di aprire bene le orecchie: ora noi ci s'imbottisce di roba a dovere, s'ingoia tutto quello che ha prescritto il medico e giovedì 14 si va a fare una bella figura, ok? Ho bisogno di voi: non ho nessuna intenzione di lasciarvi andare!

Al mio amico non va così di lusso: domani lo tagliano e dovrà dire addio alle sue sorelline.
(detta così sembra che siano pronti a regalargli la patente di eunuco, ma si tratta solo di tonsille. State calmi).
Il che significa due settimane di convalescenza se va bene.
Fate conto che già dopo 48 ore in ospedale entrambi davamo di matto.
A lui va tutto il mio bene. Il mio affetto e il mio sostegno.
Tieni duro e dagli addosso, mister S.
Al dottore cazzutto, alla dottoressa giovane, a quella un po' più alta in grado e persino alla tipa all'accettazione del pronto soccorso va tutta la mia gratitudine. Nice work, guys.
Al mio medico curante, un consiglio: la prossima volta, amico, ti conviene aguzzare la vista. O io finirò per arrabbiarmi sul serio. E tu, ometto, non mi hai ancora visto arrabbiato.
Alla macchina burocratica che sovrintende visite e prenotazioni sanitarie, un sonoro vatlapièntalcu (lo so, ci vorrebbe la dieresi, ma blogspot è quel che l'è...): a dar retta a loro, ci andavo in setticemia a ritirare l'esito del tampone dopodomani. E magari, dopo l'intervento, con tutta calma, potevo pure recarmi alla visita otorinolaringoiatrica prenotata per il 10 maggio, sfoggiando un bel paio di un cazzo di niente in fondo alla gola.
Insomma, gente: dovevo farvela breve e invece vi ho attaccato la pezza.
Che vi devo dire: è andata. E sono felice.
Sono vivo, più o meno.
Ma che cazzo...