DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

giovedì 30 agosto 2007

Moro (quasi) trent’anni dopo: la vita umana non vale un paio di braghe calate? Calate, poi…


Sono giorni di lavoro intenso per il sottoscritto. Giorni a vivere nei documenti e a spulciare carte di processi, memoriali di trent’anni fa. Ho preso a pieno ritmo a lavorare a Settanta, e uno degli argomenti che devo affrontare, volente o nolente, è l’affaire Moro.

Sul peso che la questione avrà nel mio secondo romanzo, dico poco o nulla. La data di uscita è molto in là (manca poco meno di un anno), e quello che succederà nel libro non sono (per il momento) affari vostri.

O meglio, sono ancora e solo affari miei (e del mio editor), visto che la parte è in piena fase di stesura.

Ci mancherebbe pure che mi metta a spoilerare sull’incompiuto.

Affare di tutti, credo, invece, la memoria civile.

Più rileggo i memoriali di Moro, le lettere alla famiglia, le testimonianze degli ex Br, più è forte la sensazione di dolore, di disagio.

Più mi calo nella testa di Moro, più è intensa la domanda che rimbomba in testa: PERCHE’?

Non voglio disquisire di dietrologie politiche, per quelle ci sarà tempo e luogo nelle pagine del nuovo romanzo.

Quello che mi chiedo è semplice: si poteva evitare di sparare al Presidente?

E con tutta la malafede di cui sono capace, credo che la risposta sia comunque SI’.

Se si ripescano le testimonianze della Faranda, senza cedere troppo il fianco alla suo postumo pentimento “dissociato”, viene da pensare che, anche all’interno della dirigenza della Colonna Romana, alla vigilia del 9 maggio (nonostante la durezza dei comunicati), speranza ce ne fosse ancora.

Non si discute sull’azione dei Brigatisti: la loro è storia criminale. Niente giustifica il rapimento del Presidente. Né le gambizzazioni e le azioni terroristiche precedenti. Figurarsi un omicidio.

Eppure, quello che c’era sul piatto, alla vigilia del massacro, a modesto parere del sottoscritto, era sufficiente per concludere la vicenda senza spargimento di sangue.

A sentire la Faranda (ma pure a sentire Moretti), bastava uno scambio di prigionieri per salvare la vita a un uomo. I prigionieri avevano nome e cognome: Alberto Buonoconto e Paola Besuschio.

A dispetto del muro del silenzio che fece la DC, i socialisti avevano aperto un canale per trattare coi brigatisti. Poca roba, ne sono conscio, sei o sette incontri di Pace (ex simpatizzante BR) con la Faranda e Morucci. Incontri non ufficiali che si risolsero in un nulla di fatto.

Craxi il 30 aprile parlò con il leader socialista francese Mitterand e disse: “Moro può essere salvato; si può arrivare allo scambio uno contro uno; ma a qualcuno occorre del sangue. Quello di Moro giustificherà l’emorragia”.

Uno contro uno. Una vita per una vita. Anzi: nessuna vita sprecata.

Moro, dalla prigione di via Montalcini, così scriveva al collega socialista: “Caro Craxi, poiché ho colto pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi accentuare la tua importante iniziativa…”

Una vita per una vita, e invece…

Cosa chiedevano le BR? Legittimazione politica. E uno dei loro, condannato a otto anni e mezzo, libero.

Erano giusti i metodi delle BR? No. Erano criminali.

Era brava gente quella che chiedeva la liberazione del Presidente. Erano brava gente Craxi e i suoi? Per niente, e il Paese se ne sarebbe accorto presto.

Come non era brava gente la parte di DC che lasciò Moro crepare da solo.

Ma, in un Paese che di lì a qualche anno si sarebbe rubato persino gli spicci degli elettori (e poi ai ladri sarebbe toccato scappare con la coda tra le gambe all’estero), dove sarebbero state fatte leggi ad hoc per parare il culo a privati pieni di debiti, dove, trent’anni dopo, l’indulto avrebbe svuotato le carceri, signori, mi chiedo? La vita di un uomo (un santo? Un uomo per bene? Magari non meglio dei suoi compari, ma pur sempre un uomo) non valeva la scarcerazione di un delinquente comune?

E mi chiedo anche: di cosa aveva paura mamma DC? Se anche avesse formalmente riconosciuto le BR come forza politica, pensate davvero che di lì a poche ore si sarebbe ritrovata dieci parlamentari della stella a cinque punte fianco a fianco a Montecitorio?

Ma andiamo, questo non è un paese di verginelle e non lo era trent’anni fa.

Dove è convenuto (il mio maestro De Cataldo direbbe dove c’è stata convenienza) c’è sempre stato spazio per i riconoscimenti, le braccia aperte, gli “accomodasse”. Per poi voltar gabbana al primo intoppo.

E invece, trent’anni fa, nessuno mosse un dito per salvare una vita.

E adesso, mentre gli ex BR scrivono libri e vanno ospiti ai convegni, e fanno i documentari faccia a faccia con gli ex ministri dell’interno, qualcuno dei DC di allora (indovinate chi…) siede ancora in Parlamento.

Tutto è cambiato per rimanere uguale, nel BelPaese.

L’unica voce immutata è quella della famiglia di Moro. Di sua figlia Maria Fida.

La voce delle vittime: rotta dal pianto.

Anche quella, in Italia, è sempre uguale a se stessa.

mercoledì 29 agosto 2007

Da Arnold a Tarantino: vintage sì, ma non troppo


Se questo pezzo esiste, la colpa è di una delle mie pessime abitudini: il pisolino.

Lo so che fa vecchia zia in pensione, ma quando non lavoro (a scuola), dopo pranzo non so resistere: il richiamo del divano è troppo forte.

D’altronde (lo dico per darmi un tono) lo dice anche Stephen King che nel lasso di tempo immediatamente post-prandiale si sente come un boa che ha appena inghiottito una gazzella, e la pennica è l’unica possibilità.

Divano e tv, si diceva.

E verso le due la scelta non è ‘sto granchè. Su Italia Uno c’è l’ultimo strascico di Slam Ball e ti viene da seguir l’azione e saltare in piedi sul sofà. Su MTV le biondine in bikini di Laguna Beach e non chiudi occhio neanche a parlarne.

Meglio i cari, vecchi cartoni. Che sia DragonBall o Naruto, cinque minuti cinque e sono già nel mondo dei sogni.

Che poi, se cartoni devono essere, il digitale terrestre che l’hai preso a fare? Che quel signore basso basso e l’amico suo della Lazio hanno fatto una legge apposta.

E dunque: Boing. Ventiquattrore su ventiquattro di anime old school e ricicli Mediaset.

Niente da dire, perfetti per appisolarsi.

Il punto è quando ti svegli.

Ancora nel dormiveglia una musichetta mi catapulta indietro di vent’anni (guardate un po’ se anche a voi fa lo stesso effetto…). E mi ritrovo a pensare a me stesso su un tappeto di pelo arancione nel salotto di casa di mia nonna. A giocare col Lego e bere Estathé.

Ora, col vintage in qualche modo ci campo e ho abbastanza confidenza col passato da non farmi travolgere da facili entusiasmi alla Notte prima degli esami.

Però questo è davvero un colpo basso e non c’è santo che tenga: quando appare il faccino paffuto di Arnold non posso fare a meno di godermi l’intera puntata in religioso silenzio.

Oltretutto sono anche fortunato, perché l’episodio è una chicca. Quello in cui Arnold e il suo amico, in trasferta a Hollywood si perdono negli Universal Studios tentando di infilarsi sul set di Supercar.

C’è pure un ovvio cammeo di David Hasselof e del suo destriero parlante a quattro ruote.

Mi piacerebbe potervi dire che l’emozione mi ha travolto e “com’erano belli i telefilm di una volta, signora mia…”.

Ma racconterei delle balle.

Il tv show risente dell’età, e succedono cose improbabili: KITT parla davvero, anche se la guardia degli Studios chiama Hasseloff per nome e non “Micheal”. Arnold e il suo compare vagano per i teatri di posa deserti e a un certo punto un animatrone dello Squalo li spaventa a morte. E poi finiscono sul set della Famiglia Addams e un simil Lerch li mette in fuga…

Ok, il telefilm è di vent’anni fa. Ma per l’utente attuale la supposta sospensione d’incredulità è veramente troppo. Non la voglio fare troppo semplice, non fraintendetemi. Il telefilm era tutto da ridere e lo spettatore medio (dell’Ohio o di Rozzano, poco importa) non si poneva il problema. Il punto è che queste esagerazioni inquadrano il prodotto per quello che è. Negandogli l’immortalità.

Immortalità che serie come Star Trek o Spazio 1999, pur con le loro mille oscene ingenuità, hanno ottenuto.

La distanza tra le serie di ieri e quelle di oggi è sotto gli occhi di tutti. E non mi sognerei di affiancare nemmeno per un istante Arnold a Lost (ambiti troppo diversi).

Ad ogni modo, pur nello stesso campo da gioco, Arnold troverà un paio di righe in qualche dizionario dei telefilm, FRIENDS rimarrà nella storia.

Come c’è rimasto SUPERCAR.

Ci sono produzioni che diventano immortali. Altre che vanno a ingrassare il bagaglio retrò dell’appassionato di modernariato.

Uno dei fattori principali che influiscono sull’eternità di una serie è, io credo, la continuity.

Vent’anni fa gli show erano studiati per intrattenere a orari fissi con format rigidi, statici. La stessa scenetta che si ripete più o meno in loop puntata dopo puntata. Lo show funziona, ma non evolve.

In serie come Happy Days (cito questa per rimanere nel mainstream, ma potrei citare BlueMoon, la serie che lanciò Bruce Willis), invece, dopo un paio di stagioni, si scelse la linea della continuity, dell’evoluzione dei personaggi (Ricky va in Vietnam, si sposa e mette su famiglia. Chucky e Joanie si innamorano, convolano a giuste nozze e guadagnano anche la dignità di un spin-off, mai andato – credo; l’ho visto solo in inglese – in onda da noi).

Passa di lì la strada che ha portato alla costruzione del serial moderno.

Senza continuity, Lost non sarebbe niente.

Detto questo, arrivo finalmente a Tarantino, che occhieggia dal titolo e che ancora non ha avuto un minuto per dire la sua. E se parli di Tarantino non puoi ignorare il discorso sul vintage.

La Seventies-mania che ha investito il mondo globalizzato negli ultimi dieci anni ha fatto muovere i primi passi verso la riscoperta del nostro recente passato. Un passato essenzialmente pop (e tutto è pronto per il ritorno in pompa magna dei temibili Ottanta).

Il vintage, che negli Eighties era di pessimo gusto, ha recuperato dignità. E il futuro, che nell’ottantacinque scherzavamo a mascelle spalancate, assomiglia davvero a quello rappresentato in capolavori come Rollerball, dove le case del duemila sono piene di modernariato Anni Settanta e per ascoltare la musica si usa uno strano aggeggio rettangolare con una rotella in centro.

Un conto è, però, il recupero della memoria, un conto è il consumo critico.

Vintage sì, ma con jiuicio. Non vale la regola che se una cosa ha venti o trent’anni allora è cool di default.

Viva Bruce Lee, viva l’A-Team. Ma, vi prego, abbasso Arnold e abbasso Automan.

Un discorso simile deve averlo ben chiaro in testa Quentin Tarantino da almeno una quindicina d’anni.

Kill Bill è un capolavoro citazionistico. Mai pesante, ma sopra le righe (anche se, costantemente, oltre ogni riga). È un tributo al passato. Ma con uno sguardo insindacabile al futuro. La direzione in cui Kill Bill guarda è chiara. E il capolavoro di Mr. T. non assomiglia all’angelo della storia di Benjamin (non ha la capoccia storta à rebours).

E lo stesso discorso vale per il maltrattatissimo Grindhouse.

La versione mozzata che è arrivata in Europa presta maggiormente il fianco alle critiche. Le due ore di Kurt Russel che arrota passanti e belle sgnacchere è fuori contesto.

Consiglio agli appassionati di attendere il dvd americano in cui Grindhouse e Planet Terror non sono divisi.

Oppure di scaricarsi la versione originale del double feature col caro vecchio mulo.

Alla fine delle tre ore di spettacolo, la sensazione che rimane in bocca è ben diversa da quella che trasmette la proiezione del surrogato apparso nelle nostre sale.

Le due pellicole, tanto per cominciare, sono collegate (da minuscoli particolari, come accadeva nei nostri film a episodi degli Anni Settanta). E le storie sono buone storie. Con fascino retrò, questo è indubbio, ma modernissime (le ragazze di Grindhouse ascoltano l’ipod e mandano sms).

E queste storie estreme e ultraviolente, come solo Mr. T. sa creare, galleggiano in una cornice supercool, intervallate da finti trailer di finti film d’azione o de paura, da spot gustosamente antiquari che avvisano che il contenuto delle pellicole non è adatto ai più piccini, e altre mille chicche.

E esci dal cinema con la sensazione che i veri grindhouse, quelli di trent’anni fa, non fossero così divertenti (se li riguardi te ne accorgi subito). Così come i film di Bruce Lee erano molto più pallosi di Kill Bill.

Per cui, signore e signori: Vintage sì, ma non troppo.

E soprattutto con gusto e cabeza.

lunedì 27 agosto 2007

Politicamente scorretto e la long tail di CONFINE DI STATO








Che mi aveva scritto Lucarelli ve lo dissi. Qualche tempo fa.
E pure che mi aveva invitato a una manifestazione dalle parti di Bologna in autunno. O forse no?
Ad ogni modo, oggi è arrivato l'invito ufficiale, e il sottoscritto è a dir poco lusingato.
La manifestazione si chiama POLITICAMENTE SCORRETTO e si terrà il 23, 34 e 25 novembre a Casalecchio di Reno (BO). Se vi fate un giro sul sito vi renderete conto della portata dell'evento e del perchè io stia zompettando in giro per la stanza da circa un quarto d'ora.
Politicamente Scorretto è il primo evento culturale del nostro paese dedicato alla memoria civile dei siddetti "Misteri Italiani".
Scrittori (scrittori veri, tipo Fogli, Fois, Bernardi, mica scribacchini come il qui presente...), giornalisti (Deaglio, tanto per citarne uno) e uomini di legge si danno appuntamento per fare chiarezza. Per non dimenticare. Per tenere accesa la memoria.
Io interverrò sabato 24 novembre alle ore 17.30 in un dibattito intitolato MISTERI ITALIANI: IL NOIR CHE RACCONTA LA STORIA RECENTE.
Non so ancora insieme a chi sarò, ma c'è da giurarci che sarà un'esperienza indimenticabile.
Ora, mi rendo conto che siamo a fine agosto e che la cosa si farà non prima di tre mesi...
Ma non stavo più nella pelle e dovevo proprio dirvelo.
Ovviamente vi terrò informati.
Per chiudere, un'ultima nota vanesia (tanto oggi si sprecano). Su Unpercento, un blog letteral-politico bello e autorevole, si dice qualcosina di CONFINE DI STATO, che a quasi tre mesi dalla sua uscita continua a far parlare di sè (puoi capire che long tail...).
Il direttore del blog mi fa un complimento di quelli che non si dimenticano: have a look, please.
Thanks a lot.

sabato 25 agosto 2007

Per vedere ‘sta cazzata: cronaca greca di una settimana bollente


“…Per vedere ‘sta cazzata!” è una frase ricorrente dei viaggi miei e di mia moglie. È la frase che di solito pronuncio dopo aver percorso chilometri sotto il sole o nel freddo, giungendo sconsolato di fronte a qualche reperto storico magnificato dalla guida di turno. Negli anni è diventato un modo di vivere, quasi un cliché narrativo, e nessuno si offende più se io, a metà percorso, inizio a canticchiare: “Per vedere… Per vedere…” (esiste anche un motivetto abbinato allo slogan: lo inciderò in mp3 e lo posterò sul sito, promesso).

A questo giro, l’espressione di famiglia si è sprecata, ed è stata una Grecia un po’ meno convincente del solito.

Non sono mancate, ad ogni modo, le piacevoli sorprese.

Ma andiamo con ordine.

Partenza traumatica da Malpensa vecchia all’alba e alle otto, freschi come delle rose (rose che non hanno dormito per trentasei ore), appoggiamo le valigie sul suolo greco. Ritiro la macchina in cinque minuti (l’uomo dell’AVIS è efficiente ovunque, da Bangalore a Punta Raisi. Effetti collaterali della globalizzazione) e alle nove siamo già in viaggio verso il nulla.

Lo dico per chi non c’è mai stato: nei piccoli paesi ellenici dare un nome alle strade pare sia peccato. Per cui l’unico modo di trovare l’hotel è andare a chiedere in qualche bar e tentare di farsi spiegare la strada in un esperanto dei viaggiatori che sa d’inglese, greco e turco.

Così facciamo, ma l’uomo, in cambio dell’indicazione, pretende che ci si fermi ad abboffarsi nella sua taverna.

Calamari, insalata greca e un lontano parente del frico di cui ora mi sfugge il nome.

Il tutto innaffiato dalla locale Mythos e da due dosi da portuale di raki.

Per farvela breve: niente turismo culturale il primo giorno; pisolino e cenetta leggera. E arrivederci.

Da venerdì inizia il tour de force, altresì detto nazi tourism: se si va in un posto occorre vedere TUTTO. E poco importa se occorra svegliarsi alle sette e sciropparsi duemila miglia in macchina.

Per cui, vai col MUSEO ARCHEOLOGICO di Heraklion (chiuso per metà: dieci euro di biglietto per quattro frammenti di mosaico e una brocca – pure bellina – a forma di toro), la GROTTA DI ZEUS (saltata a piè pari: di fronte all’impervia salita preferisco una birra sotto le fresche frasche, mando la dolce metà in avanscoperta e mi accontento delle foto sulla digitale), le città di CANDIA e RETHIMNOS con quaranta gradi all’ombra.

Come? Mare, dite voi? Nei ritagli di tempo.

Sì perché c’è ancora da vedere l’ultima e la più strepitosa delle bellezze dell’isola di Creta: IL PALAZZO DI CNOSSO.

Premesso che temendo l’insolazione si punta la sveglia alle sette e mezzo (e già la giornata non ti sorride…), al palazzo è comunque impossibile arrivare prima di mezzogiorno.

Lontano, direte voi… Per nulla.

Il problema sono le autostrade greche. Il greco, fiero e rigoroso, non concede seconda possibilità: se a Roncobilaccio non vedi le indicazioni, puoi uscire e rientrare nel senso di marcia opposto.

Se a Creta ranzi l’indicazione KNOSSOS (scritta in greco e grande quanto un Gronchi rosa), affaracci tuoi.

Puoi solo fare inversione in piena autostrada (ma magari ti stuzzica l’idea di tornare vivo) o rassegnarti: l’unica via che ti riporterà al punto di partenza è una mulattiera spersa nei campi. Ti toccherà attraversare un mare d’ulivi e sentieri sterrati, farti quasi sparare dalla sentinella d’una base segretissima immersa nei boschi e stare molto attento a non investire la classica nonna greca (modello base: completo nero e fazzoletto in tinta legato sotto il mento).

Così, a mezzogiorno, quando il sole è allo zenith, ti ritroverai nel bel mezzo del Palazzo.

La storia la conoscono anche i bambini, e mia moglie me la ricorda per lenirmi l’insolazione e far sembrare meno scema la mia bocca spalancata per l’arsura: mi dice di Teseo e Arianna, ma soprattutto di Pasifae, che per capriccio divino, s’invaghì di una bestiola da tre quintali destinata al sacrificio e ci fece pure un figlio.

Chi non fosse sazio di dettagli pulp, può cliccare qui.

La visita dura una mezz’oretta, non di più. E non ricordo, giuro, quanto ho sborsato per il biglietto (l’ho comprato in bundle con quello del museo archeologico).

Ma quando finalmente guadagno la sommità del palazzo, mi appoggio tronfio a una delle due colonne ridipinte di rosso per i turisti (quella vera, l’altra è di cemento armato) e scruto finalmente l’enorme distesa di vasi finti, pietre vere interpolate da ferro, cemento e plexiglas e prato all’inglese, non posso che esclamare il più soddisfatto e fragoroso dei PER VEDERE ‘STA CAZZATA!

Questa la parte buffa e meno soddisfacente del viaggio.

Ma, come dicevo in principio, qualche soddisfazione c’è stata.

Il cibo, per esempio, ma soprattutto i prezzi. A pranzo non si è mai speso più di dieci euro per ingurgitare dell’ottima Pita farcita.

E a cena, è il caso di dirlo: mollami…

Il meglio fritto di pesce e la meglio moussaka, col meglio vino a prezzi ridicoli: trentacinque euro massimo. In due, s’intende.

E infine, gran godimento estivo sotto l’ombrellone (che, per inciso, con due sdraio costava sei euro al giorno. Quasi come a Forte dei Marmi…): la lettura.

In una settimana scarsa ho divorato due libri e mezzo (l’ultimo lo sto finendo in questi giorni).

KAI ZEN, LA STRATEGIA DELL’ARIETE

RIZZO-STELLA, LA CASTA

BRIZZI, IL PELLEGRINO DALLE BRACCIA D’INCHIOSTRO

E su questi libri, potete giurarci, ci scapperà qualcosa in più d’un post…

venerdì 24 agosto 2007

Tornato: un po' provato...

Gentili lettori,
ho rimesso piede sul suolo italico da ben più di ventiquattrore, ma non ho ancora avuto un secondo per scrivere... Chiedo venia.
E di cose da dirvi ne avrei pure un bel po', tra costumi greci, letture e riflessioni in riva al mare.
Giuro che domani posto qualcosa di decente.
Per ora, contentatevi di queste quattro misere rigacce strascicate...

martedì 14 agosto 2007

Chiuso per ferie: stavolta è vero


Questo è definitivamente l'ultimo posto prima della (breve) serrata estiva.
Domani si parte (in realtà domani notte, quasi dopodomani) e per una settimana non sarò rintracciabile nè presente sul web.
Un ultimo aggiornamento sui lavori in corso:
- Ho terminato di scrivere la mia parte di J.A.S.T.
- Ho iniziato il restyling della scaletta di Settanta e il plot ha fatto notevoli passi avanti. Conto di averne una versione definitiva per il 31 agosto, primi di settembre. Da lì in poi, una volta che il boss l'avrà approvata, si partirà a scrivere.
- Sono in stand by con United We Stand. Ma a ottobre secondo me qualcosa uscirà. Tenetevi forte, perchè se tutto va per il verso giusto, vi bombarderemo con una campagna marketing degna di Star Wars...
Questo è quanto.
Godetevi Ferragosto e le ultime del mese.
Io vado a strafogarmi di mussaka e gyro-pita.
Ci si risente dal 24.

domenica 12 agosto 2007

Riscoprire i classici: Catullo è meglio di Bukowski

Immersi nella calura estiva si sente spesso parlare della riscoperta dei classici. Autori intramontabili della letteratura mondiale la cui lettura è imprescindibile a chi si definisca "letterato".
D'agosto i classici tornano in classifica, complice il senso di colpa dei lettori (Ma cosa leggi a fare Manituana che non hai mai letto Hemingway? Ignorante!) e le letture scolastiche che le torme di prof appioppano ai propri allievi (ad agosto L'amico ritrovato o Se questo è un uomo vendono più di Camilleri).
Per quanto mi riguarda, non sono un "letterato", sono pigro e piuttosto ignorantello (ho letto Manituana senza sensi di colpa. E il povero Hemingway è ancora sullo scaffale) e ai tempi della scuola preferivo Fleming a Primo Levi.
Detto questo, ho i miei classici anch'io.
Classici hard-core, come Bukowski (Storie di ordinaria follia l'avrò letto dieci volte), ma anche qualcosa di più marcatamente mainstream.
Prendete Catullo. Sì, quello di Lesbia e dei "mille baci, e poi altri cento", ecc.
Se a scuola eravate studiosi ve lo ricorderete come poeta romantico e delicato.
Se stavate all'ultimo banco a far casino, il nome vi dirà qualcosa ma niente di che.
Di sicuro, pensando al poeta di Verona, non vi verranno in mente versi come questi:


Non è, buon dio, che credessi differente
l'odore della bocca e del culo di Emilio.
L'una non è più pulita o sporca dell'altro,
ma forse è meglio e più pulito il culo:
se non altro è senza denti: la bocca ha zanne
enormi e le gengive come un carro vecchio,
spalancata poi sembra la fica slabbrata
di una mula in calore quando piscia.
E lui se ne fotte molte, si crede stupendo:
ma mandatelo a far l'asino nei mulini.
Quella che va con lui si leccherebbe
anche il culo di un boia appestato.

Nè come questi:

In bocca e in culo ve lo ficcherò,
Furio ed Aurelio, checche bocchinare
che per due poesiole libertine
quasi un degenerato mi considerate.
Che debba esser pudico il poeta è giusto,
ma perché lo dovrebbero i suoi versi?
Hanno una loro grazia ed eleganza
solo se son lascivi, spudorati
e riescono a svegliare un poco di prurito,
non dico nei fanciulli, ma in qualche caprone
con le reni inchiodate dall'artrite.
E voi, perché leggete nei miei versi baci
su baci, mi ritenete un effeminato?
In bocca e in culo ve lo ficcherò.

O questi:

Ti prego mia dolce Ipsililla,
amore mio, cocchina mia,
invitami da te nel pomeriggio.
Ma se decidi così, per favore,
non farmi trovare la porta già sprangata
e cerca di non uscire, se puoi,
restatene in casa e preparami
nove scopate senza mai fermarci.
Se ne hai voglia, però, fallo subito:
sto qui disteso sazio dopo pranzo
e pancia all'aria sfondo tunica e mantello.

Roba da far impallidire il vecchio Charlie, che ne dite?
Per cui, se anche voi volete riscoprire un classico, quest'anno portatevi al mare i Carmina di Catullo. Possibilmente nella traduzione di Ramous.
Ve la spasserete un mondo.

sabato 11 agosto 2007

Vallanzasca e Gino Paoli: due racconti in copyleft

Non è l'ennesimo post musical-politico, don't worry.
E nemmeno un'installazione à la Cattelan.
Ne avevo parlato da qualche parte, in un commento, forse. E avevo promesso che avrei messo online i miei vecchi racconti.
A dirla tutta non è che ne abbia così tanti nel cassetto. Per mia fortuna, da quando faccio questo mestiere, scrivo "a progetto" (ossia in specifica funzione di ciò che debbo pubblicare). E in genere lavoro a opere dalle cento pagine in su (complice la mia innata prolissità...).
Per cui, nei miei archivi non c'è abbastanza roba da mettere insieme la raccolta SARASSO - TUTTI I RACCONTI.
Qualche racconto, però, l'ho scritto anch'io.
Il mio primo in assoluto, Turkemar, è diventato un romanzo di recente (vedete ben che tutte le mie opere tendono all'ingrasso) e sapete dove trovarlo.
Restano fuori dal mazzo altre due chicche:

Genova, 20 luglio 2001, un racconto sul G8. Per l'esattezza sul giorno in cui moriva Carlo Giuliani. E su Gino Paoli, ché se penso a Genova penso a lui. C'è poco da fare.
Il racconto uscì qualche anno fa in una raccolta intitolata Orme di gatto, edita da Effequ.


Diecimila pallottole, una breve incursione nella vita di Renato Vallanzasca: vera rock star del banditismo dei Seventies, assassino, pluriergastolano.


Per i racconti è stata creata una nuova sezione, proprio sotto quella dei libri.
Presto (inizio oggi, abbiate pazienza) ci infilerò anche quello che scriverò per i KAI ZEN.
Enjoy & stay tuned...

Ordinate questo libro: lo vendono per poco (anzi, lo regalano...)


Quella che sto per proporvi è un'offerta irresistibile.
Almeno per un italiano.
E io che, come diceva quel signore milanese che ci manca tanto, per fortuna o purtroppo lo sono, non ho resistito.
Sarà che noi dello Stivale, a non pagare si gode proprio.
E guardate che vi ho trovato qui.
Su questo sito dei bravi ragazzi (credo toscani) si sono rimboccati le maniche e hanno riscritto Pinocchio. Il tizio in sega elettrica e puntale d'asino in copertina ha poco a che spartire col burattinello collodiano, è questo fa già ben sperare sul volume.
Se lo si sfoglia, poi, ci si accorge che è scritto bene, è frizzante, reinterpreta il mito con ironia e cattiveria.
Ma fin qui sono capaci tutti (più o meno).
La vera idea è che il libro è gratis.
Sì, bravo, direte voi. I Wu Ming lo fanno da trent'anni e tu ti presenti qui adesso con la tua faccia hot water discoverin' style.
Non mi sono spiegato: non si tratta di scaricare un file e stamparselo comodamente a casa propria.
Se richiedete il libro all'indirizzo strelnik@gmail.com il precisando le ragioni per cui lo volete (basta un semplice: per leggerlo, no?), il curatore dell'opera imbusta una copia del libro e ve la manda in posta prioritaria.
Spese di spedizione a carico vostro (e ci mancherebbe pure).
Semplicemente geniale.
Io la mia copia l'ho richiesta.
Datevi una mossa, che ce ne sono solo duecento.

giovedì 9 agosto 2007

Irene Grandi e il post-berlusconismo


Non che questo blog abbia volontà di diventare un simil wittgenstein bruttarello in cui una notizia su due si parla di musica e politica (insieme).
Però questa ve la dovevo proprio dire.
A pranzo ho discusso, con una persona di cui non farò il nome per l’estremo rispetto che nutro nei suoi confronti, dell’articolo di Sofri su Bruci la città di Irene Grandi.
Sofri la magnifica come il pezzo dell’estate. A me personalmente non dice niente.
Dice poco anche al mio interlocutore. Ma non è questo il punto.
Il punto è che se ne esce con una frase del tipo: “Comunque Irene Grandi non mi piace perché bruci la città/crolli il grattacielo vuol dire “Fanculo tutti, c’è spazio solo per noi due”. E questa è una visione della vita tipicamente berlusconiana: viva la felicità del singolo, dimentichiamoci delle persone, chiudiamoci in casa al calduccio e cerchiamo di essere felici per conto nostro. E invece Veltroni (ancora lui, poverino) nella lettera programmatica ai quotidiani ha detto che la felicità del singolo non può prescindere dalla felicità di tutti.
Quindi Irene Grandi è fascista e io non l’ascolto più.
Ecco.”

Ecco…
Povera Irene e povero Walter (sempre in mezzo).
E, mi consenta, povera Italia…

mercoledì 8 agosto 2007

Luca Sofri, i Finley e il Partito Democratico

Alle prossime elezioni voterò Partito Democratico. E il 14 di ottobre andrò alle primarie per scegliere il segretario.

Veltroni o Letta, non ho ancora deciso. E siccome non ho ancora deciso, da un po’ giro per assembramenti democratici, ove fondatori di mille colori si danno convegno.

Ieri sera io e la mia mogliettina siamo andati alla Festa dell’Unità di un paese dei dintorni.

Ci siamo sbafati un ottimo stinco e una birrona per un prezzo ridicolo, e sul più bello del caffè, proprio mentre alla radio i Finley urlavano Soffro di dipendenza / da una strana sostanza.... / io non posso star senza...
LA MIA DOSE DI ADRENALINA
(ché Bandiera Rossa non va più di moda nemmeno alla Festa dell’Unità), il presidente del circolin
o ha richiamato gli “interessati – e spero siano molti! –” in un bunker sotterraneo per la Riunione Propagandistica del Partito.

Gli interessati, per inciso, non erano molti. Una trentina.

E l’età media si aggirava più sui sessanta che sui cinquanta (perché c’eravamo anche noi “giovani”: una mezza dozzina di trentenni e un ragazzino del liceo).

Gli interventi sono stati tre. E si è parlato delle stesse cose che ho sentito in bocca a Veltroni a Torino:

- NO alla legge elettorale attuale. Che è una porcata.

- SI alle pari opportunità: 50% di presenza femminile nelle liste locali per le primarie.

- Le infrastrutture ecocompatibili, che ce n’è tanto bisogno.

- Il voto (alle primarie ma non solo) anche per i sedicenni.

Sul subito, avrei già avuto il mio bel da ridire.

Ad esempio: se la legge elettorale attuale fa così schifo (d’accordo, l’ha voluta il centro destra e grazie a ‘sta benedetta legge se le pure pijata ‘n saccoccia alle ultime elezioni), forse non era il caso di riproporla alle nostre primarie. E invece il 14 ottobre ci saranno 6 liste con 6 candidati piovuti dal cielo. Assolutamente non decisi a base popolare. E passi.

E passi pure che il 50% delle donne in lista è una gran cosa. Fico davvero. Però, guarda caso, su 6 candidati per la segreteria c’è una sola donna: la Bindi (e non dico altro).

Viva le infrastrutture ecocompatibili, ma a me basterebbe sapere quando finiranno i lavori sulla A4, che se mi sbaglio ad andare a Milano una sera, non posso tornare in autostrada perché duecento operai in notturna la stanno sventrando.

Evviva pure il voto ai sedicenni. Che però sospetto preferirebbero andare al concerto dei Finley domenica 14 ottobre, piuttosto che essere trascinati alla ex sede del PCI con mamma e papà.

Ma su questo ci torniamo, don’t worry.

Come ho detto, sono tante le cose su cui mi piacerebbe dire la mia. Ma sono venuto per ascoltare e ascolto. In silenzio. Qualcuno degli energici ragazzi del ’34 in platea, però, non è dello stesso avviso.

Se ne alza uno gridando ai tre sul palco: “DEH! VOLETE FARE IL PARTITO DEL FUTURO COI DE MITA E I DE MICHELIS???!!!!”

E un altro si accoda dicendo che “I Cattolici sono integralisti peggio dei musulmani! Ché lo Stato è LAICO e non si può fare il partito coi baciapile!”

E l’ultimo – il vero campione del mondo – ricorda che una formazione popolare così vasta non può avere futuro, “perché è dal 1921 a Livorno che comunisti e socialisti sono divisi. E adesso vogliamo tirar dentro anche i democristi e fare il pastone e alora…”

Panico. Sudore freddo.

E non sul volto dei tre in cattedra.

Sul mio.

A parte aver realizzato che da queste parti il nascente PD non farà gran fortuna. E che gli altri (Rifondazione e quel signore basso basso con pochi capelli) si riempiranno le tasche di voti a spese nostre.

A parte tutto ciò, non è questo il punto.

Il punto è che sembra di stare ancora nel ’68.

Di scene così, di assemblee proletarie, ne sto descrivendo a bizzeffe in Settanta.

Il punto è che quelle scene sono ambientate nel ’76, nel ’77.

Non trent’anni dopo, mannaggia.

A fine serata io e mia moglie finiamo a scambiar due parole con una ragazza dell’ambiente.

La ragazza è in giunta (o in consiglio comunale, non ricordo) e dopo due ore di discussione su intrighi e maneggi delle cose di casa nostra, su candidature spinte per tornaconti personali, sulle stesse cose di sempre, me ne vado a casa con tanto amaro in bocca.

E penso: ma che cazzo? È davvero questo l’unico modo di far politica nel XXI secolo?

Grazie a Dio, mi rispondo quasi subito di no.

E questo succede perché penso a Luca Sofri.

Luca Sofri è figlio di Adriano. Sì, di quell’Adriano Sofri.

Luca Sofri appoggia la costruzione del Partito Democratico. Ha fondato il comitato dei Mille.

Ha coinvolto un sacco di persone. Ha detto la sua.

Ha detto come vorrebbe il PD. Ha parlato di costruzione dal basso. Quella vera.

E come lo ha fatto?

Per radio, in tv?

Neanche per sogno. Lo ha fatto parlando dal suo blog.

Lo ha fatto attraverso WITTGENSTEIN.IT. Un’isola sperduta nella rete. Dove ci va chi ne ha voglia e ci torna solo per sentire la voce di Luca.

Che a volte ci azzecca, a volte no. Che è sempre onesta e l’amaro in bocca non te lo lascia mai.

Sofri aveva tante opzioni: non fare politica, farla male, farsi schiacciare dall’ombra del padre.

Ma il coraggio e il cervello hanno fatto sì che si mettesse in gioco per la migliore delle cause possibili.

Il futuro della sinistra, signori e signore, passa dal PD. Mettetevelo in testa.

Il comunismo è morto e sepolto e pure la DC si è squagliata senza più rossi a cui dare la caccia.

Se vi va, possiamo continuare a scannarci come nei film di don Camillo, oppure rimboccarci le maniche e tentare di costruire un Paese nuovo.

Luca su questo sogno ci ha messo la faccia.

E l’ha messa nel posto giusto: in rete, non in tv.

La gente a cui quella faccia piace si è fatta sotto. Si è posta le domande che Luca e i Mille, per primi, si sono posti.

Alcuni sono rimasti, altri no.

Questa è democrazia. Questo è fare politica nel XXI secolo.

I bunker asfittici coi veterocomunisti contro gli ex ciellini lasciamoli ai romanzetti storici come quelli del sottoscritto.

Perché, come dice Sofri, qui o si fa l’Italia o si vivacchia…

Chiudo con un’ultima considerazione sui sedicenni.

Ce l’avete presente un concerto dei Finley? Andate a vederne uno, per cortesia.

Fatevi travolgere da duemila ragazzine brufolose e che si strappano le corde vocali urlando DIVENTERAI UNA STAAAAR! UNA CELEBRIIITAAAAAA’!

E chiedetevi due cose:

1) A queste anime candide fregherà qualcosa di pensioni, D.I.C.O. e cuneo fiscale (Intendiamoci: ben venga che non gliene importi ancora nulla…)?

2) Siete sicuri di volere che il LORO voto influisca sul futuro del NOSTRO paese?

Spero non me ne vogliano Pedro, Ka, Ste e Dani: il loro disco, alla fine, l’ho pure comprato.

lunedì 6 agosto 2007

Il caldo dà alla testa: Beirut, la Palestina e il mare d'agosto...


Da queste parti fa parecchio caldo.
E parecchio vuol dire TRENTADUE PUNTO CINQUE. All'ombra.
Dunque se il post risulta un po' delirante, perdonatemi.
Ho voglia di andare al mare. Ma proprio a far niente, a starmene in spiaggia sotto l'ombrellone col libro dei KAI ZEN (mi sto violentando per centellinarlo. Deve durare almeno mezza vacanza greca).
E invece manca ancora qualche giorno (dieci), sono blindato in casa a scrivere e ho una montagna di lavoro.
Da dove sono seduto ora, scorgo una enorme catasta di penne. Papermate, per l'esattezza. Duecentoquaranta circa. E domani partiranno per il Perù.
Duecento bambini (si sa che le penne a sfera sono quel che sono, una su tot non funziona) da mercoledì potranno scrivere. Con quelle penne.
Dunque, ricapitolando, io borghesuccio sovrappeso me ne sto seduto nel mio bello studiolo (senza aria condizionata) a scrivere e sudare. E penso ai bimbi del Perù e alle penne che gli manderemo.
Intanto in Perù non ci vado. E sogno il mare "da ricchi".
E continuo a scrivere. Ma di che?
Di Palestina. E di Beirut 1983. E di bambini. Che non se la passavano tanto bene neppure loro.
Poi arriva una mail. E' un messaggio da Anobii che mi dice che qualcuno vuole parlarmi. Quel qualcuno è un ragazzo simpatico che ha un blog. In quel blog c'è un link al sito dei Giovani Comunisti. E su quel sito che ti becco?
Una proposta per i campi di lavoro in Palestina. Campi estivi, quelli in cui si va a giocare coi bambini e si cerca di tirargli su il morale, che avete capito?
Campi gestiti da arabi e israeliani insieme.
Ancora bambini. Senza un soldo. Che saprebbero che farci con quel mucchio di penne che ho qui davanti.
Insomma, io me ne sto qua a scrivere di Palestina (è un capitolo di J.A.S.T., nel caso ve lo steste chiedendo) a trenta e passa gradi. A cercare di immaginarmi la sabbia, il rumore dei carrormati, il vento caldo che trapassa i vestiti. La fame e le bombe.
Ma in Palestina non ci vado. E nemmeno in Perù.
Ci mando delle penne a sfera, al massimo.
In Grecia me ne vado. A "rilassarmi". A magnare, leggere e prendere il sole.
A volte sono convinto che la letteratura e l'arte possano fare tanto per parlare alle persone.
Altre volte, come adesso, mi chiedo se non farei meglio ad alzare il culo e rimboccarmi le maniche.
Ok, fine del piagnisteo.
Torno al "duro" lavoro.

domenica 5 agosto 2007

Google Analytics, i Servizi e la canicola


Google Analytics è uno strumento strepitoso.
E inquietante.
Tra le altre funzionalità, c'è quella che ti permette di sapere che tipo di connessione ha utilizzato il visitatore del tuo sito. E addirittura che provider.
Se casomai un'azienda ha una rete interna e server propri, all'attento Google non sfugge. E ti dice persino il nome della rete aziendale. Ad esempio so che dall'Università di Pisa e di Vercelli qualcuno è venuto a farmi visita.
E pure dalla PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI e dal MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI.
Ammazza ho pensato, come l'ho scoperto. Poi sono stato investito da una secchiata d'acqua gelata: timore primordiale, paure antiche. ODDIO! SILVIO MI SPIA E STA PROGETTANDO DI FARMI ELIMINARE DAI SERVIZI SEGRETI!
Poi ho respirato. Ho fatto mente locale: niente più Silvio da più di un anno.
Ora c'è Romano al timone.
Il cuore s'è scaldato e me lo sono immaginato placido insieme a Massimo, a guardare il mio blog con tenerezza: "Mo' guarda Massimo! C'è anche il bottoncino del Kilombo! L'aggregatore dei blog di tutte le sinistre..."
Per la seconda volta mi sono risvegliato. E la verità era lampante: alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ci lavora un sacco di gente. Mica solo mr.P.
Tra quelle persone ce ne sarà una che s'è fatta un bel giretto in rete a spese del Paese. Ed è capitata da queste parti.
D'altronde è sempre agosto: Romano, fa caldo...

sabato 4 agosto 2007

Prima di andare via, un regalo: Turkemar in copyleft


Prima di tirare giù la serranda, un regalo per le vacanze.
Turkemar, il mio romanzucolo su Fred Buscaglione, è da tempo disponibile in COPYLEFT (con una licenza simile a quella Creative Commons: copiate pure e diffondete, ma citate la fonte), ma magari nessuno se n'è accorto.
Beh, se volete portarvi in vacanza una cosuccia leggera (nel senso che sono appena cento pagine e qualcosa), è l'ideale.
A proposito di Turkemar, in questi giorni si sta parlando con l'editore di un adattamento cinematografico, ma niente è definito (voci, voci, ancora nessun pezzo di carta...).
Personalmente me lo sono sempre immaginato con Fiorello (Rosario o Beppe, poco importa) protagonista nella parte di Buscaglione.
Ma si sa che le mie idee sugli interpreti dei miei personaggi non sono mai viste con entusiasmo dai produttori (mi piacerebbe Christian De Sica nella parte di Sterling... Esatto, De Sica. E smettetela di ridere. Sarebbe fichissimo) e dai miei lettori in genere.
Ad ogni modo, quale che sia la sua sorte en pantalla grande, il libro è qui.
Leggete e, se vi va, fatemi sapere, ok?
Buone vacanze.

Ah! Un'ultima cosa: il libro da oggi è scaricabile gratuitamente anche nella neonata sezione CONTENUTI SPECIALI di Turkemar

Mani avanti: Settanta e qualche post in meno. Vacanza?


Cari amici, cari lettori occasionali,
da oggi è molto probabile che il numero di post su questo blog diminuisca.
Vuoi che è agosto, vuoi che tra qualche giorno, tutta la sacra famiglia (gatto escluso: per Puffetta, vacanze in città) se ne volerà una settimana in Grecia, vuoi che c'è la scaletta di Settanta da stravolgere e ritoccare, vuoi che anche voi (bene o male) andrete a godervi della sana villeggiatura senza internet appresso.
A settembre si ripartirà a ritmo sostenuto, le Officine sbufferanno fumo e parole, vi terrò informati su come procedono i lavori e magari ci sarà anche un restyling del blog (ci sto lavorando con delle persone competenti. Rimarrete sorpresi!)
Per ora, quindi, buone ferie (a chi le fa) o buon quel che vi pare in città (avviso per chi non parte: Le Trottoir, a Milano, è aperto tutto agosto, quindici compreso. Per chi ama folleggiare...).
Da questo momento (più o meno, poi magari il posticino ci scappa lo stesso...), silenzio radio.
Arrivederci a settembre.
Se proprio non potete fare a meno del sottoscritto e avete comunciazioni urgenti, la mail è sempre la stessa: simonesarasso@tiscali.it

venerdì 3 agosto 2007

Perché un buon serial tv è meglio di un cattivo libro

Ne ha già parlato Aldo Grasso, lo so. E ci ha scritto pure un ottimo libro.

Libro che non ho (ancora) letto, e quindi mi sento in parte scagionato da possibili “sincronie”.

Ne aveva scritto tempo fa un giornalista del Guardian riguardo ai Sopranos, paragonando l’autore della serie a Dickens e lo show al moderno feuilleton.

E secondo me non aveva torto. Anzi.

Da tempo sono un sostenitore della commistione tra letteratura, cinema, videogames, fumetti e rete. Se ne sarà accorto chi ha dato un’occhiata a Confine e s ne accorgerà (con annesso sobbalzo sulla sedia) chi leggerà le produzioni venture (J.A.S.T. e United We Stand in testa, ma pure Settanta, il seguito di Confine di Stato).

Credo che la letteratura (specie quella italiana) si sia svecchiata parecchio negli ultimi dieci anni e abbia sempre meno paura di strizzare l’occhio ai media mainstream. Un vecchio adagio anni Sessanta riservava il massimo dell’espressione intellettual-rivoluzionaria a ristretti spocchiosi circoli sinistrorsi in cui imberbi Che Guevara si sciroppavano infiniti polpettoni eisenstaniani, lottando per tenere gli occhi aperti ed emozionandosi sinceramente una volta squarciato il velo.

Già nei primi Ottanta l’epilogo della faccenda mostrava il suo vero volto dai fotogrammi del capolavoro di Paolo Villaggio: Fantozzi che urla “La Corazzata Kotiomkin (nel film l’originale Potemkin era stato storpiato per questioni di copyright) E’ UNA CAGATA PAZZESCA!” è un’intera epoca che fa i conti col proprio immaginario.

Paolo Villaggio stesso, amico intimo di De Andrè ed esponente della crème dell’intelligentjia di sinistra della Genova del Sessantotto cambia strada. E si dà al mainstream. Con tutto l’orgoglio e l’ironia di cui quella generazione di geniacci fu capace.

In un’intervista che cito spesso, Jean Jacques Annaud, regista de Il nemico alle porte svela una dei più grossi segreti della nostra epoca in materia di entertainment: qualunque storia popolare, di questi tempi, deve fare i conti coi blockbuster hollywoodiani.

Nello specifico Annaud non si vergogna (e lo dice a chiare lettere all’intervistatore) di usare moderne tecniche di ripresa, effetti speciali e scene d’azione da cardiopalma per raccontare una storia che di yankee non ha nemmeno l’ombra.

La storia è quella di un cecchino russo Vassili Zaitsev durante la battaglia di Stalingrado. Niente di più palloso, potenzialmente. Un’altra Potemkin.

E invece no, perché il cecchino ha la faccia di Jude Law, è cool perché centra i nazi col fucile da sniper, e tutta la storia è costellata di azione, esplosioni, emozioni forti.

Evitando di storcere il naso di fronte al mainstream, Annaud ha raccontato una storia misconosciuta e nodale.

La storia di un eroe comunista a difesa dell’ultimo baluardo di libertà in Europa: Stalingrado.

Questo genere di storia sarebbe stata benissimo nei cineforum di quarant’anni fa. I Guevara della Bassa si sarebbero entusiasmati e avrebbero speculato sul carattere rivoluzionario e antiamericano dell’opera. Avrebbero brindato a Stalin e Krusciov.

Mai e poi mai avrebbero immaginato che di una storia del genere se ne potesse fare una produzione Paramount in grande stile.

In tempi più recenti, il lavoro di Wu Ming ha delle analogie con questo atteggiamento.

Se si pensa a 54, si riconoscerà tra i personaggi Ivan Alexsandrovic Serov, il primo Presidente del KGB.

Immaginatevi che appeal possa avere un personaggio del genere sul lettore medio. Eppure, grazie alla bravura dei narratori, Serov non sfigura di fianco a Cary Grant. E non sembra nemmeno così bidimensionale come Ernst Stavo Blofeld (il capo della Spectre) nei romanzi di Fleming.

E qui ci avviciniamo alle serie tv.

La narrazione popolare ha bisogno di grandi storie. E se le storie che racconta hanno un doppio fondo reale (vedi Annaud, così come i libri del ciclo americano DI Evangelisti), tanto meglio.

Ché la memoria collettiva ha sempre un gran bisogno di essere rinfrescata.

Qualunque storia, però, per essere compresa, deve parlare la lingua del proprio tempo.

Ed è questo il motivo per cui le serie tv hanno un pubblico maggiore degli sceneggiati RAI.

Prendiamo LOST. Milioni di telespettatori in tutto il mondo. Fan che si strappano i capelli e darebbero un braccio per un’anticipazione sulla prossima serie. Geeks de noantri che si scaricano le puntate il giorno dopo che sono uscite in America. E le guardano in inglese, pur di sapere come va a finire.

Perché? Perché non funziona così anche con la nostra fiction su Garibaldi?

E dire che i temi della nostra produzione in camicia rossa sono ben più importanti: il sogno di un Paese, le nostre radici, il miraggio dell’unità. Il sangue e la polvere di quei giorni. Mica roba da poco…

E invece LOST cosa mette sul piatto: temi triti e ritriti. Il Triangolo delle Bermude, l’Isola di Gilligan, la teoria del complotto, una spolveratina di crime novel e di commedia brillante, quattro scopate e un po’ di mistero.

Eppure…

Un miliardo di spettatori da una parte e nemmeno trecentomila dall’altra.

Dove sta il segreto?

Non in quello che si dice, ma in come lo si dice.

Gli sceneggiatori di LOST ci fanno saltare sulla sedia. Ogni puntata apre con un problema apparentemente insolubile e una scena d’azione. Nel corso dell’episodio il problema si risolve, ma prima della fine stai pur certo che se ne presenterà un altro. Un altro così difficile da risolvere che non vedi l’ora che sia ancora mercoledì. Finisci per diventare schiavo della continuity. E tutta la situazione si esaspera ancora di più quando l’episodio è l’ultimo della serie. Perché la voglia ti deve rimanere addosso per sei mesi almeno.

E i personaggi?

Non è più bella la nostra Anita con la faccia della bellissima gossippara di turno in confronto a quella sciacquetta di Kate?

No, signori. Affatto. E non perché le donne di casa nostra siano meno attraenti di quelle d’oltreoceano.

Ma semplicemente perché la Kate di LOST è un personaggio complesso, pieno di rimorso e senza direzione. Che soffre a ogni passo e si vede. In più, aggiungici faccia e corpo da modella e una voce doppiata da un cavallo di razza.

Anita sarà pure bellina, ma come apre bocca viene fuori quel romanaccio glabro delle periferie (che non si addice a una signora cresciuta in Brasile e vissuta a Ravenna). Il suo personaggio è piatto come una tavola da surf, ombra meschina dell’eroe BarbaBionda, e non assomiglia né alla sé stessa dell’Ottocento, né alla telespettatrice dall’altra parte del tubo catodico. Che cosa comunica allo spettatore? Un bel niente, ecco cosa.

Senza contare che i serial di casa nostra, sei puntate e tutti a casa. Quelli americani riescono a tenere la tensione per ventitre, ventiquattro episodi a stagione.

Per cui ecco il punto.

Chi fa il mio mestiere, chi vende storie popolari in cambio di danari, deve aver cura di chi quei danari li spende.

Il lettore non può perdersi dietro alle turbe dell’incomunicabilità dell’autore. Non può sorbirsi personaggi piatti e senza sentimenti. Non può non saltare sulla sedia.

Perché chi se compra una storia nera o un romanzo di spie ha pagato per il pacchetto completo, con tanto di suspence, emozione ed esplosioni.

Quindi, e lo dico prima di tutto a me stesso, chi fa questo mestiere, quando è davanti alla tastiera, dovrebbe portarsi appresso gli insegnamenti degli sceneggiatori del serial d’oltreoceano.

E magari le sue pagine inizierebbero a spirare un’inusitata ventata di freschezza.

giovedì 2 agosto 2007

Liberazione parte seconda (vintage)

Vi ripropongo qui un'intervista di qualche tempo fa, un'intervista vintage su Confine di Stato, risalente al periodo a cavallo tra i due editori.
L'intervista è a firma Davide Turrini e uscì su Queer, l'inserto di Liberazione, il 14 gennaio 2007.
La riporto qui per due motivi:
1) Dice qualcosa sul rapporto tra la mia scrittura e Tarantino. E sulla "comunicazione accessibile".
2) Come mi ha fatto notare l'autore, sono una testa quadra e non l'avevo inserita tra le interviste.
Da qui questo post per il buon Davide (a.k.a. A.S.): fai conto di sentire in sottofondo le note del più grande successo di Caternia Caselli.
Enjoy...

Liberazione

Non avete idea che soddisfazione: ho appena finito una parte di J.A.S.T. che mi ha tormentato per giorni. I protagonisti sfuggivano, il magma storico era complesso da dominare.
Ma finalmente è fatta.
Ahhhhhh...
E' proprio vero che il momento più bello del mestiere dello scrittore è quando rileggi la prima stesura fumando una (meritatissima) paglia.

Bis di Repubblica, scorpacciata di "Confine"


Gli squilli di trombe li avevo sentiti pochi giorni fa, e già mi sembrava di stare a posto per tutta l'estate. E invece no, ciccio, mica finisce qua!
Il 21 luglio usciva su Repubblica la recensione di Irene Bignardi.
Oggi, 2 agosto, Confine di Stato è di nuovo citato dal quotidiano milanese. Tra i consgili di lettura per l'estate. Il box è a firma Gian Paolo Serino e lo trovate qui.
Per chi fosse feticista del cartaceo, il pezzo è a pagina X dell'inserto MILANO REPUBBLICA.
Di fianco a un intervista a Linus su Poe, alla sinistra di Marco Biondi e sopra ad un delizioso servizio sul Porno Karaoke (nuova tendenza in rapida diffusione tra i giovani nei locali alla moda: invece di cantare i testi dei Pooh e di Madonna, si doppiano in real time Rocco e Cicciolina...)

Bologna


Succedeva adesso.
Ventisette anni fa. Qualcosa sventrava la stazione di Bologna e cambiava il Paese, per sempre.
Qualcuno, come undici anni prima in Piazza Fontana, aveva deciso che il sangue innocente è meglio di ogni propaganda politica.
Vale più dell'oro.
Il 1980 crolla addosso alla gente, a ricordare che il decennio del terrore non è finito.
Prima Ustica, poi questo.
Il governo a Cinque stringe i denti per sorreggere un Paese che affonda nel sangue.
Dopo ventisette anni, ancora una volta, nessuno è colpevole. Qualcuno è in galera e si dice innocente.
Dopo ventisette anni, ancora a discutere se fosse strage fascista o meno.
Dopo ventisette anni, sull'asfalto restano solo un orologio fermo per sempre alle 10.25 e i nomi dei morti:
  • Antonella Ceci, anni 19
  • Angela Marino, anni 23
  • Leo Luca Marino, anni 24
  • Domenica Marino, anni 26
  • Errica Frigerio In Diomede Fresa, anni 57
  • Vito Diomede Fresa, anni 62
  • Cesare Francesco Diomede Fresa, anni 14
  • Anna Maria Bosio In Mauri, anni 28
  • Carlo Mauri, anni 32
  • Luca Mauri, anni 6
  • Eckhardt Mader, anni 14
  • Margret Rohrs In Mader, anni 39
  • Kai Mader, anni 8
  • Sonia Burri, anni 7
  • Patrizia Messineo, anni 18
  • Silvana Serravalli In Barbera, anni 34
  • Manuela Gallon, anni 11
  • Natalia Agostini In Gallon, anni 40
  • Marina Antonella Trolese, anni 16
  • Anna Maria Salvagnini In Trolese, anni 51
  • Roberto De Marchi, anni 21
  • Elisabetta Manea Ved. De Marchi, anni 60
  • Eleonora Geraci In Vaccaro, anni 46
  • Vittorio Vaccaro, anni 24
  • Velia Carli In Lauro, anni 50
  • Salvatore Lauro, anni 57
  • Paolo Zecchi, anni 23
  • Viviana Bugamelli In Zecchi, anni 23
  • Catherine Helen Mitchell, anni 22
  • John Andrew Kolpinski, anni 22
  • Angela Fresu, anni 3
  • Maria Fresu, anni 24
  • Loredana Molina In Sacrati, anni 44
  • Angelica Tarsi, anni 72
  • Katia Bertasi, anni 34
  • Mirella Fornasari, anni 36
  • Euridia Bergianti, anni 49
  • Nilla Natali, anni 25
  • Franca Dall'olio, anni 20
  • Rita Verde, anni 23
  • Flavia Casadei, anni 18
  • Giuseppe Patruno, anni 18
  • Rossella Marceddu, anni 19
  • Davide Caprioli, anni 20
  • Vito Ales, anni 20
  • Iwao Sekiguchi, anni 20
  • Brigitte Drouhard, anni 21
  • Roberto Procelli, anni 21
  • Mauro Alganon, anni 22
  • Maria Angela Marangon, anni 22
  • Verdiana Bivona, anni 22
  • Francesco Gomez Martinez, anni 23
  • Mauro Di Vittorio, anni 24
  • Sergio Secci, anni 24
  • Roberto Gaiola, anni 25
  • Angelo Priore, anni 26
  • Onofrio Zappala', anni 27
  • Pio Carmine Remollino, anni 31
  • Gaetano Roda, anni 31
  • Antonino Di Paola, anni 32
  • Mirco Castellaro, anni 33
  • Nazzareno Basso, anni 33
  • Vincenzo Petteni, anni 34
  • Salvatore Seminara, anni 34
  • Carla Gozzi, anni 36
  • Umberto Lugli, anni 38
  • Fausto Venturi, anni 38
  • Argeo Bonora, anni 42
  • Francesco Betti, anni 44
  • Mario Sica, anni 44
  • Pier Francesco Laurenti, anni 44
  • Paolino Bianchi, anni 50
  • Vincenzina Sala In Zanetti, anni 50
  • Berta Ebner, anni 50
  • Vincenzo Lanconelli, anni 51
  • Lina Ferretti In Mannocci, anni 53
  • Romeo Ruozi, anni 54
  • Amorveno Marzagalli, anni 54
  • Antonio Francesco Lascala, anni 56
  • Rosina Barbaro In Montani, anni 58
  • Irene Breton In Boudouban, anni 61
  • Pietro Galassi, anni 66
  • Lidia Olla In Cardillo, anni 67
  • Maria Idria Avati, anni 80
  • Antonio Montanari, anni 86

mercoledì 1 agosto 2007

Nuovi link nella sezione Cool Stuff

Date un'occhiata. Aggiunti il sito di Lucarelli, della Lipperini, di Vibrisselibri, ecc.
Tutta roba indispensabile, se vi piace quello che piace a me.
Sarò pedante, ma ve lo ricordo anche in questo post: NON DIMENTICATE BOLOGNA (e leggete il post sotto)

Bologna choc: ventisette anni dopo


Cliccate qui, fate la cortesia.
Cliccate qui adesso, per non dimenticarvi, domani, di puntare il videoregistratore.
Domani, 2 agosto, ventisettesimo anniversario della strage di Bologna, alle 10.25 (ora in cui la bomba esplose, ventisette anni fa) su History Channel andrà in onda il documentario di Enzo Cicco e Giorgio Lolli su quel giorno orribile.
Più che di documentario sarebbe più corretto parlare di documento, dal momento che Cicco e Lolli, nemmeno ventenni, quel giorno si fecero strada tra la polvere, il sangue e le macerie per dare una mano.
E, più o meno consapevolmente, con le loro videocamere fecero testimonianza. Immortalarono storia e tragedia.
Non dimenticatevi, domani, di Bologna.
E tenete gli occhi aperti sullo schermo finchè ci riuscite, chè immagini come queste valgono più delle mille parole degli scribacchini come il sottoscritto.

Personaggi schedati: qualcosa su J.A.S.T.

Quello che sto per dire c’entra con J.A.S.T., la spy-story collettiva a cui sto lavorando.

Ma c’entra anche col mio modo di immaginare le storie. Di costruire le trame, di annodare il racconto.

C’entra col mio modo di scrivere.

Questo è il primo vero post di “officina” che compare sul questo blog. E dal momento che questo spazio è nato proprio per svelare i ferri del mestiere, per aprire una finestra e permettervi di vedermi al lavoro, non perdiamo tempo e andiamo al sodo.

Da alcuni giorni, su suggerimento del mio editor in Marsilio, ho iniziato a preoccuparmi di ciò che i miei personaggi sentono molto più di ciò che fanno. Finora ho sempre proceduto strutturando la trama in cemento armato. Progettando ogni singolo meccanismo narrativo, agendo come un demiurgo senza cuore sulla storia.

Non che mi sia intenerito a riguardo, per carità. Ma se voglio che i miei personaggi acquistino tridimensionalità, devo conoscere i loro sentimenti prima di decidere cosa far loro fare.

Dal momento che devo sapere esattamente come reagiranno di fronte a questa o quella situazione.

Se li farà soffrire, se li agiterà, se lo faranno controvoglia o con grande trasporto emotivo.

La trama rimarrà sempre una grande preoccupazione. E i meccanismi narrativi saranno perfetti, oliati e funzioneranno al meglio delle loro potenzialità, ve lo prometto.

Ma d’ora in avanti, anche i personaggi risulteranno meno bidimensionali. I cattivi saranno sempre cattivi, per carità. Al male puro non si cambia faccia. Ma sarà interessante vedere come il nero assoluto cambia tono e lucentezza su sfondi di diverso colore.

Senza stare a girarci troppo intorno, vi parlerò di uno dei personaggi di J.A.S.T., stando attento a non spoilerare (rovinare la sorpresa è peccato mortale), ma comunque facendovelo conoscere per quello che è.

Questo tizio è un uomo. Un adulto, potremmo dire senza troppi complessi.

E siccome J.A.S.T. è una storia di spie, non faticherete a immaginarvi che lavoro faccia.

Detto questo, è bene sfatare un gran bel cliché (che nel mio Confine di Stato ho ampiamente contribuito ad alimentare): non tutte le spie assomigliano a James Bond. Come amava ripetere Dulles, direttore della CIA di qualche anno fa:

"Nella realtà James Bond avrebbe avuto un grosso dossier a suo nome al Cremlino dopo la sua prima impresa e non sarebbe sopravvissuto alla seconda."

Detto questo, le spie non hanno macchine da duecentomila dollari, vestiti firmati, non sono alte un metro e novanta e non sono sempre cool.

Questo per il semplice motivo che non ce ne sono molti, in giro, di tizi così. E quelli che ci sono si notano a chilometri di distanza. Dunque le spie hanno la pancia, gli occhialini, qualcuna un po’ d’acne, qualcuna il riporto. A volte vestono alla moda e a volte sono prive di gusto. A volte la mancanza di gusto è una ragione di servizio. E non immaginatevi travestimenti alla Lupin III.

Le spie sono reali. E quella di cui mi sto occupando io sente il peso di questa realtà schiacciargli le spalle.

Il mio uomo ha pensieri reali, reali preoccupazioni. Reali rodimenti di culo.

In barba all’insegnamento di Kurtz a Sterling al campo di Ultor:

“L’addestramento sviluppava una vocazione: disinteressati di te, delle eruzioni di imbarazzo, degli assalti e degli insulti. Impara a non essere niente. Impara a vedere tutto. Impara a uccidere.”

Il lavoro di intelligence ha tante facce. E non tutte assomigliano a quella sporca e cattiva degli operativi.

C’è il controspionaggio statico, che non è poi tanto diverso da un qualunque lavoro d’ufficio.

E come un qualunque lavoro d’ufficio genera noia, frustrazione, stress.

Questo è decisamente un bel mondo da indagare.

E non necessariamente tutte le spie sono dei lupi solitari come Sterling. Dediti alla causa come samurai.

L’intelligence può essere un lavoro importante, ma c’è posto per dell’altro nella vita di una spia. C’è posto per i dubbi e per gli affetti. C’è posto per la rata del mutuo e per le vacanze al mare.

Se smette di essere uomo e diventa automa, il soldato dell’informazione diventa macchina. Perde il contatto col reale. Questo non succede al mio uomo.

Almeno non subito.

E, anche nella vita di una spia, l’evoluzione degli avvenimenti (della storia, nella fattispecie) genera mutamento, stuzzica lati del carattere sopiti, fa sbagliare e recriminare. Crea problemi.

Questo è uno degli universi possibili che vorrei indagare nel mio personaggio.

Detto questo, detto niente.

E detto fin troppo.

Per cui, per ora, passo e chiudo.

Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità.

Ci ritorneremo, ci ritorneremo…