DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

mercoledì 5 settembre 2007

La serie TV ai tempi di Emule: come cambia il mondo, signora mia


C’era una volta Happy Days alle otto di sera. E il giovedì, alle otto e mezza, prima davano l’A-Team e poi MacGyver.

Oggi, invece, c’è un palinsesto che da settembre sembra quello della Fox: ogni sera una serie diversa (Heroes, Doctor House, Grey’s Anatomy, Ugly Betty, C.S.I.). E mica su Sky: tutto MADE IN ITALIA UNO.

E la RAI che deve fare? Si adegua. A breve, ripartiranno E.R. e Desperate Housewives.

Ora, lo so che una volta qua era tutta campagna, signora mia, ma mi piacerebbe andare un po’ più a fondo alla questione e cercare di capire cosa rende le serie TV contemporanee dei veri fenomeni di massa mentre i suoi prodromi di vent’anni fa erano poco più che passatempi per ragazzetti brufolosi.

Inizierei con una distinzione tanto banale quanto fondamentale: la continuity.

Nelle serie contemporanee (in quasi tutte: C.S.I. fa eccezione) si è prediletta la scelta della long-story a capitoli ai danni del format che negli Ottanta ha fatto la fortuna di molti serial, da Supercar a Ripide.

Niente più single-shot ripetitivo da quaranta minuti (in cui l’azione è consolidata secondo domestiche e rassicuranti linee guida: 1) succede qualcosa di terribile e qualcuno è nei guai 2) L’eroe è chiamato in causa – in genere da vecchi amici - o si ritrova nel bel mezzo dell’azione 3) L’eroe risolve il pasticcio), ma una ventina di capitoli (sempre da quaranta minuti, perché i tempi del broadcasting sono quelli dagli anni Cinquanta: spazi da un’ora per serial e pubblicità) attraverso i quali una complessa trama pluri-personaggio si dipana.

Personalmente non ho mai amato la formula single-shot.

Ma credo che ci siano delle concause nella mia preferenza.

Troppo facile sarebbe sparare sulla Croce Rossa degli sceneggiatori: per forza di cose, vent’anni fa gli script erano più ingenui e bacchettoni (anche se certi episodi di Starsky & Hutch fanno ancora drizzare i capelli in testa), le tecniche di ripresa erano quello che erano (c’era una differenza di budget colossale tra i blockbuster e i serial) e, soprattutto, il pubblico era troppo inesperto per gestire trame come quelle odierne.

Film come I soliti sospetti o Fight club ci hanno resi il pubblico che siamo. Guardando The Prestige mezzo inganno l’ho capito prima della fine; vent’anni fa avrei avuto difficoltà a starci dietro.

Parlando di pubblico, si apre la parentesi Emule, che molto ha a che vedere con la fruizione delle serie nel XXI secolo. I giornali la vedono ancora come un fenomeno di nicchia, ma io non la bevo.

Grazie a internet è nato un nuovo modo di fruire il serial.

Il p2p permette cose che dieci anni fa erano impensabili: seguire le serie in contemporanea con l’uscita U.S.A., vederle in originale e, soprattutto, vederle in blocco.

Se per LOST il giorno dopo la proiezione americana in rete recuperi già la puntata sottotitolata (merito anche di Itunes, che la vende a un euro), ci sono seriali (vedi The Shield) che ci mettono un po’ di più ad arrivare online.

Comunità intere si occupano delle release delle stagioni. La qualità dei divx è impressionante.

E l’utente paziente dotato di ADSL può ritrovarsi per le mani tutte le puntate di una season in una botta sola.

Questo succede da noi, ma nella patria del Presidente Bush stanno avanti di qualche anno (uno dei protagonisti di LOST ha candidamente ammesso con la stampa che i suoi amici e la sua ragazza si scaricano le puntate dello show).

E a questo nuovo fenomeno le major non sono indifferenti.

Prendete Heroes. È costruito esattamente per essere visto “di seguito”.

Qui c’entra anche la parentela coi comics: leggere una serie in volume è meglio che farsela a puntate.

Ma il senso non cambia: se in 24 o in Prisonbreak l’attenzione a fare di ogni episodio un gioiello perfetto che va a incastonarsi nel diadema della serie è altissima, nel nuovo serial di supereroi è minore.

Le singole storie respirano se godute nella soluzione one-shot. Divertono pochino se prese a piccole dosi.

E questo l’hanno capito anche i nostri programmatori.

Di base, qui da noi, per un retaggio degli Eighties che voleva che la prima serata in tv durasse due ore (allora si mandavano in onda cinque volte i film che si proiettano ora), le serie si è iniziato a venderle due episodi alla volta.

E guarda caso, Heroes è stato proposto in una formula insolita: quattro puntate tra domenica e lunedì scorsi.

Questo perché Heroes non parte a bomba. E a parte l’addicted, il fan sfegatato – che la guarderebbe comunque - l’utente italico medio si spalla e non torna. Ecco perché servono quattro puntate in fila: per far sentire gli spettatori di Italia Uno come i geeks (tra cui il sottoscritto) che la serie se la sono sparata di seguito e in anteprima (leggi: minimo due/tre puntate a sera).

Pubblico e fruizione hanno dunque un peso specifico sul successo della nuova generazione di telefilm.

Ma credo che il valore intrinseco di questa deliziosa (seppur datata) forma di entertainment sia dato dalle opportunità di sviluppo della trama che al cinema sono, per forza di cose precluse.

Grazie a Dio l’establishment degli Studios si rinnova e ricalcola il tiro in base alle nuove esigenze del pubblico. E dunque, da qualche anno a questa parte, al botteghino spuntano come funghi trilogie assolutamente memorabili (ultima in ordine di tempo – una vera bomba atomica per trasversalità di pubblico – I pirati dei Caraibi).

L’allungamento dei tempi narrativi permette profondità mai raggiunte prima dal cinema mainstream. Raccontare una storia in due ore è un conto. Farlo in venti, come direbbe Jules Winnfield in Pulp Fictionnon e' lo stesso fottuto campo da gioco, non e' lo stesso campionato e non e' nemmeno lo stesso sport”.

In questo senso, 24, la serie con Kiefer Sutherland, è il capolavoro assoluto. L’idea della narrazione in tempo reale rende fondamentale ogni passaggio scenico: non esistono tempi morti.

E si ha tutto il tempo per conoscere i personaggi in profondità. Dopo un paio di stagioni (sono un po’ indietro col ruolino di marcia: in America stanno iniziando la sesta) ho la sensazione di conoscere Jack Bauer quasi come il commissario Montalbano.

La tempistica narrativa del serial avvicina TV e letteratura.

Se hai venti puntate a disposizione, il flashback da dieci minuti sul passato del personaggio non è uno spreco. Anzi. E i protagonisti sembrano quelli di un romanzo.

All’attuale configurazione di entertainment superiore si è giunti per una molteplicità di fattori (prevalenza della long-story, pubblico più scaltro, internet e peer 2 peer), ma non sempre il passaggio è stato traumatico. Serie piuttosto datate, tipo E.R. (che, ridendo e scherzando, sta per compiere tredici anni) nate nell’epoca a cavallo tra il single-shot e la long-story sono riuscite ad evolvere e sopravvivere.

La scelta della continuity non era così chiara nelle prime due serie. Il format era nuovo, ma comunque ripetitivo: i personaggi interagivano pochissimo, e l’azione era costituita al novanta per cento da chi entrava in pronto soccorso bisognoso di cure.

Negli anni, la spina dorsale del serial (sangue e morte sotto i ferri) è restata intatta, ma i personaggi si sono evoluti: alcuni se ne sono andati, altri si sono sposati, altri ancora sono morti. E lo show è rimasto vivo in un periodo mortifero (Beverly Hills e Melmose place implosi dopo un pugno di stagioni).

Chiudo citando quello che a mio parere è il vero anello di giunzione tra il passato e il futuro di quelli che una volta si chiamavano telefilm.

Nel 1991 un signore di nome Michael Chiklis interpretava The Commish (Il commissario Scali, da noi). Il format era orribile ma divertente: Scali, commissario ciccione e col riportino unto, con una moglie ricciolina e sensibile, combatteva il crimine tra una ciambella e l’altra, con senso dell’umorismo e moralità pseudo-maccartista da sbirro per bene.

Dieci anni dopo Chiklis si reinventò nei panni di un altro poliziotto: Vic Makey. Niente più quartieri residenziali per lui: benvenuto a Los Angeles. E niente più buoni propositi. Il Mackey di The Shield è muscoloso e rapato a zero (ma comunque appesantito. E a guardarlo non si può non pensare a Scali…).

È marcio fino al midollo: ammazza, ruba, smercia roba. Il tutto, rigorosamente in nome della legge. Avete presente Denzel Washington in Training day? Una signorina, in confronto.

Il coraggio dell’attore e il livello dell’interpretazione non è passato inosservato: nel 2002, Chicklis ha vinto l'Emmy e il Golden Globe per il miglior attore protagonista. E The Shield, a tutt’oggi, dopo sei anni e picco di longevità (avete indovinato: è una long-story), è la meglio serie poliziesca in circolazione.

Altro che Grissom e compagnia briscola…

Hotmail mi odia parte 2: proud to be blacklisted


L'articolo l'ho recuperato in rete ed è pure vecchiotto.
Il che significa che la pratica va avanti da un pezzo.
Date un'occhiata qui, please.
Per coloro ai quali non andasse di leggere, riassumo. Hotmail opera in questo modo: non è lei (e dunque Microsoft) a blacklistare, anzi. Lei paga (immagino profumatamente) un'azienda - tale SenderScore - che fornisce a Microsoft una Lista Bianca di utenti sicuri, che potranno comunicare coi clienti hotmail senza problemi (senza vedere le loro mail respinte brutalmente al mittente).
Se per qualche motivo (tipo aprire un blog?) non si fa più parte della Lista Bianca, tocca pagare SenderScore perchè ti ci rifacciano entrare.
Quanto? L'anno scorso il prezzo di listino era sui 400$, così dice l'articolo.
Dici cotica...

Hotmail mi odia: I'm blacklisted...


L'ho scoperto per caso provando a mandare delle mail di lavoro al mio amico e collega Gabriele di Benedetto (a proposito: fatti un account su libero e scrivimi). Poi mi è capitato con amici e conoscenti vari.
Infine, la conferma: stamane. Ho provato a spedire una mail a Barbara (una lettrice conosciuta qua sul blog) e mi è tornata indietro.
Tutte le persone in questione hanno indirizzi @hotmail.com e la mail di rimbalzo mi informa che non possono recapitare la mia letterina perchè il mio IP è blacklisted.
Sui perchè si potrebbe filosofare una stagione, ma qui il problema è un altro.
Ed è un gran bel problema: metti che mi scrive qualcuno con un indirizzo di "posta calda"? E io non gli posso rispondere manco se piango in greco...
Non ho idea di come fare. Potete darmi una mano?
Ad ogni modo, colgo l'occasione per comunicare a tutti coloro che hanno un indirizzo @hotmail.com che, se non mi faccio sentire, non è perchè non li voglio più bbene...