Mere life is not a victory, mere death is not a defeat.
Old Klingon proverb
Volume Uno
Ci sono storie che partono da lontano. E impiegano lustri ad arrivare a destinazione. Ci sono storie che abbisognano di tempo per essere raccontate. Di tempo e di fiato. Ci sono uomini che attraversano le ere, creature mitiche che a ogni passo diventano sempre più leggendarie. Per conoscere fino in fondo il destino di personaggi del genere (per assaporare fino in fondo certe storie) occorre andare a stanarli là dove sono nati.
Dopo dieci anni esatti dalla pubblicazione del loro romanzo d’esordio, arriva in libreria il romanzo che i fan dei Wu Ming aspettano da sempre. E per godersi davvero questo romanzo, gente, non ci sono cazzi: l’unica cosa da fare è andare a riprendere la storia là dove è cominciata. Leggere ALTAI senza aver riletto Q è come mangiare la pizza bianca: squisita, molti ne vanno pazzi, ma porca troia manca davvero qualcosa.
Io negli ultimi due mesi mi sono sparato un giro della morte imbarazzante: al lavoro in settimana, in giro per presentazioni praticamente ogni week-end. Dopo sei settimane senza un giorno di pausa, finalmente mi è piovuto in testa l’8 dicembre. Il ponte immacolato mi ha servito senza riserve quattro giorni di nulla assoluto. 96 ore per tirare il fiato, per ricaricare le batterie. Altai era già uscito da qualche settimana. L’avevo preso subito, non riuscendo nemmeno ad aspettare la copia omaggio che Wu Ming 1 mi aveva fatto spedire, ma fino a quel momento non avevo avuto il coraggio di iniziare. Non mi andava di leggere quel libro in treno, seduto sul cesso, nei ritagli di tempo tra un viaggio e l’altro, tra una campanella a scuola e una mail da spedire.
Quel libro l’avevo atteso troppo.
A un certo punto della mia vita di lettore, parlando coi quattro della band, avevo persino disperato che avrebbe mai visto la luce. Avevano giurato e spergiurato che non avrebbero mai più battuto quelle strade, ma Wu Ming 4, luglio scorso (a Milano, dopo la presentazione di Stella del Mattino), si era lasciato scappare qualcosa: “Stiamo pensando a una narrazione ambientata nel mondo di Q. Per festeggiare i dieci anni dall’uscita del romanzo…”
Mi ero fatto sotto a caccia di particolari, ma lui si era abbottonato: “Vedrai, vedrai…”
Così ho aspettato. Ho ascoltato in anteprima a Torre Pellice – nel mezzo di una sera fresca durante un estate torrida come pochi – le parole di Wu Ming 1. Narravano l’abbrivio, l’incendio dell’Arsenale di Venezia che inaugura ALTAI: con le gondole della Serenissima mi sono acceso anch’io. Ho di nuovo provato quel brivido di due lustri or sono. Quello che ha dato origine a tutto.
Mesi dopo, finalmente, c’erano solo ALTAI e il tempo per leggerlo. Quattro giorni davanti, si diceva. Quattro giorni da poter disporre, finalmente, per la metà del lavoro che mi piace di più: quella in cui le dita non battono sui tasti, ma servono soltanto a sfogliare le pagine. Quattro giorni: il momento ideale per tornare indietro nel tempo. Per andare a stanare il capitano Gert Dal Pozzo là dove tutto ha avuto inizio. Ho ripreso in mano Q: sono ripartito dall’inizio.
L’avventura è stata mirabile. Il supporto cartaceo ha contribuito non poco, va detto. La mia copia del romanzo d’esordio degli allora Luther Blisset è segnata dal tempo e dai chilometri. Acquistata in una libreria di Biella che dista due passi dalla più antica casa del circondario durante una notte di stravizi, mi ha seguito per mezza Europa. Ha assaggiato la rena e il salmastro delle spiagge spagnole ed è stata cotta dal sole portoghese, quello che nasce di fronte all’oceano. Ha cambiato casa insieme a me, è stata testimone della mia nuova vita, ha patito appunti e sottolineature, mi ha ascoltato parlare (malissimo) una lingua che ancora non conosco a due passi dalla frontiera francese, è servita, più di una volta, ad alimentare il fuoco della rivolta. Ha generato idee e scontri, e nottate di chiacchiere sui massimi sistemi. Quello che devo fare, la frase che apre il volume, è quella che da sempre vorrei cucire ad ago e inchiostro sulla pelle.
Insomma, Cristo Santo, quel libro l’ho studiato e amato, regalato e raccontato così tanto che è parte di me, non ci sono cazzi. Rileggerlo (per la quarta? Quinta volta?) pensavo non fosse ancora così emozionante. Mi sbagliavo. Ho viaggiato: sono stato a Wittemberg, a Frankenhausen, a Münster. E poi ancora ad Anversa, a Basilea, a Ferrara, a Venezia. Ho letto senza fiato, per giorni. Ho rincontrato vecchi amici e ottusi nemici. Ho scalpitato al suono degli zoccoli dei lanzi, ho gridato come un matto “OMNIA SUNT COMMUNIA, FIGLI DI CAGNA!!!!”, ho avuto voglia di farmi anabattista, di sputare in faccia ai signori l’odio antico come il mondo. Ho desiderato. Ho desiderato così tanto conoscere il nome dell’Uomo Senza Nomi che, mentre leggevo, ho persino mandato una salva di sms a Wu Ming 1:
Io: Più leggo e più la domanda è un tarlo: lo chiedo a voi, voialtri che siete gli unici a poterlo conoscere se esiste… Qual è il nome di battesimo di Gert Dal Pozzo? Il nome vero, il mai detto…
WM1: Simone
Io: Bugiardo lusinghiero. Comunque, ragazzi, saran passati dieci anni, ma Q è sempre un cazzo nel culo! Tra poco è ora di ALTAI. Due giorni di full immersion…
WM1: Questa recensione di Q la devi mettere testuale su Anobii.
Io: Aggiungerei addirittura un aggettivo: un SOLIDO cazzo nel culo. Anche dopo due lustri.
Sono arrivato a Istanbul ferito, ricolmo di schegge che bruciano anche a dieci anni di distanza. Gonfio del solito orgoglio, della voglia di fare e di raccontare storie adatte al fuoco e alla sera. Sapevo bene come mi sarei sentito, alla fine. Avevo già percorso la pista altre volte. Solo una sensazione mancava all’appello. La peggiore di tutte: la nostalgia. Alla fine di tutti gli altri viaggi, terminate tutte le altre letture, oltre al resto restava l’amaro. L’amaro della storia finita. L’astinenza dall’inchiostro, droga pesante. Questa volta era diverso, questa volta, il viaggio poteva continuare.
È l’8 di dicembre dell’anno di grazia 2009: inizio ALTAI.
Dopo dieci fottuti anni, finalmente saprò come questa maledetta storia va a finire.
Volume Due
L’abbrivio è epico (che te lo dico a fare?): l’incendio dell’Arsenale della Repubblica di Venezia è l’11 settembre del secolo decimo sesto dopo Cristo. Tra le calli, le fiamme e la pece si aggira l’uomo nuovo, Emanuele De Zante. Nuovo perché questa è un’altra storia; c’è scritto ovunque, in rete, che questo non è il seguito di Q. Nuovo, ok, ma questo new guy, questo tizio tutto spocchia e mani pulite, che preferisce far fare il lavoro sporco a uno sguaiato furlano dalle mani pesanti di nome Tavosanis (se solo sapeste chi è il vero Tavosanis…), ha addosso reminiscenze d’un tempo passato. È solo come un cane, e ha un retaggio che pesa come un macigno. De Zante inizia il suo viaggio scappando (lo terminerà combattendo) e punta dritto a Est. Da Venezia a Ragusa, e poi Istanbul. Al luogo del commiato di Q, De zante ci arriva insieme alla neve, ma nella mia testa i colori sono nitidi: se Q è un romanzo gelido come l’acciaio, grigiazzurro come gli occhi del capitano Dal Pozzo, ALTAI è rosso fuoco. E oro. De Zante cambierà nome, ritroverà quelle origini giudee che credeva sepolte sotto ettari di buone intenzioni e tradimenti. Si troverà faccia a faccia col suo peggior nemico: Giuseppe Nasi, a.k.a. João Miquez, vecchia conoscenza veneziana del capitano Gert.
E questo incontro cambierà la sua vita per sempre.
Quello che succede dopo non è cosa da raccontare, perché se no si sciupa la sorpresa a chi il libro non l’ha ancora letto. Basti però sapere al lettore avido al pari del sottoscritto, che in ALTAI non mancano fatti di sangue e d’armi degni delle migliori incursioni lanzichenecche a Frankenhausen (l’assedio di Famagosta e la battaglia di Lepanto vi bastano?), graditi ritorni (sì, diavolo, non preoccupatevi: c’è anche il capitano Dal Pozzo. E dovete vedere che razza di straordinario lavoro ha compiuto il tempo su di lui…), formidabili creazioni (il personaggio di Dana è uno dei migliori dipinti dell’intera pinacoteca wuminghiana). Ma più che tutto, ancora una volta, il quartetto è riuscito a creare una prodigiosa macchina del tempo: lungo le pagine di ALTAI si respira il marcio delle sentine delle galeazze, il sangue rappreso dei ponti in battaglia, l’aroma del cumino misto a quello della seta appena tinta. Ci si riempie l’occhi di Mediterraneo, le orecchie di turco, giudesmo e pugliese. Ci s’incanta a immaginare miglia su miglia e città e donne, razze, diversità.
Uno stendardo biforcuto, azzurro come il ghiaccio, rosso e oro come il luogo dove sorge il sole. Ecco che cos’è per me questa storia: dieci anni e due libri in un’immagine sola. Oriente e Occidente, maschio e femmina, figlio e padre. Non c’è ALTAI senza Q. Tenetelo a mente, se volete goderne fino in fondo.
Sei anni fa, quando uscì Kill Bill, andai al cinema a vedere il Volume 1 e ne restai semplicemente estasiato. Quando annunciarono l’uscita del Volume 2, affittai il dvd del primo e lo guardai una mezz’oretta prima di fiondarmi al cinema. Uscii da quella sala imbevuto di soddisfazione. Le due parti del capolavoro di Tarantino sono inscindibili. La storia è una: poco importa se occorrono mesi per ascoltarla tutta.
Ricordatevene, prima d’imbracciare ALTAI: le storie migliori partono da lontano.
P.S.
Se ancora vi steste chiedendo che cavolo c’entra la citazione Klingon coi due romanzi, provate a rileggerla dopo le mille pagine del corpus e vedete l’effetto che fa…
3 commenti:
Un solido cazzo nel culo...
Grande recensione: mi hai fatto venir voglia di rileggere per la "n" volta Q. È quello che devo fare.
Sei sempre un grandissimo cazzaro, grande recensione!
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=375851
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