DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

lunedì 3 settembre 2007

Cambio di provider: possibile buio per qualche tempo


Prima o poi doveva succedere: sto per passare a FASTWEB.
Per un anno mi sono crogiolato con la mia gustosa ADSL da 2 mega offerta da Cheapnet (compagnia costola di Eutelia, molto vantaggiosa e molto affidabile) alla modica cifra di 30 eurucci tutto compreso, ma ora comincio ad aver bisogno di qualcosa di diverso.
E quel qualcosa di diverso, nel panorama italico delle offerte internet, ha un solo nome: Fastweb.
Il contratto con la compagnia del buon Valentino Rossi l'ho sottoscritto venerdì. E oggi ho dato la disdetta con Cheapnet. Vuoi che Cheapnet ci metta una settimana/dieci giorni a staccarmi la spina. Fastweb, a dispetto del nome, non sarà così veloce da venirmi in soccorso senza creare buchi di connessione.
Per cui sarò senza internet per un periodo oscillante tra i sette e i quattordici giorni (forse di più, se Cheapnet è scatenata e mi taglia i fili in fretta).
Da quando? Bella domanda...
Potrebbe essere domani come tra dieci giorni.
Ecco perchè ho messo un simpatico avviso sull'headline del blog.
Scriverò una mail comunicando un telefono al quale rintracciarmi a tutte le persone con cui lavoro a distanza in questo periodo.
A tutti gli altri chiedo scusa sin d'ora per la forzosa assenza che subirà questo blog.
Con la promessa di rispondere a tutte le mail che si saranno accumulate nel frattempo a tempo di record.
Da domani, ogni giorno è buono. Per cui inizio a salutarvi.
Poi magari faccio tempo a postare ancora diecimila articoli prima del blackout, ma non si sa mai...
Abbiate pazienza.

sabato 1 settembre 2007

Se non ci fossero gli amici: due (bei) libri e uno che non ho ancora letto

Nel paese dei favori, delle mani che si lavano a vicenda, del malcostume della spintarella e della raccomandazione, se uno si azzarda a parlare bene di un amico, finisce nei guai.

Fa la figura del maneggione nepotista, del complottardo massonico assetato di carboneria.

Questo per dire che vi vorrei parlare di tre libri, ma siccome sono di amici, ho qualche remora a farlo.

I libri mi sono piaciuti davvero. Fin qui…

E gli autori, a parziale scanso di equivoci, li conosco, è vero. Si è parlato molto e diverse volte (magari con una birra davanti), ma non si è mai mangiato insieme. Per esempio.

Dunque non è come se facessi i complimenti a mio fratello o al mio migliore amico.

È una cosa diversa.

Vabbuò, fate come vi pare, datemi del raccomandatore di persone care (che, per inciso, non hanno bisogno di nessuna raccomandazione: vendono cento volte quello che vendo io), ma io di ‘sti tre libri vi parlo lo stesso.

Si parte con Nelle mani giuste (d’ora in avanti NMG), capolavoro del mio maestro Giancarlo De Cataldo. Dico capolavoro e non “nuovo romanzo” perché tra l’epopea di Romanzo criminale e questo libro c’è un solco profondo che arriva fino al cuore del Paese. NMG è il libro più ellroyano di Giancarlo. Ancora prima di leggerlo ne parlai con Pietro Cheli, di Diario, e me lo sconsigliò. Ne lessi male, i primi giorni che era in giro. Voci discordanti, insoddisfazione, “non è all’altezza di Romanzo criminale”.

Partii prevenuto. Dopo venti pagine mi accorsi che quelle che avevo letto sui giornali erano un sacco di balle.

Giancarlo usa la lingua come nessun altro. I suoi personaggi sono veri, pulsanti. Dicono e fanno cose da film vivendo immersi in un posto terribile. Che di fasullo ha poco o nulla.

E poi le donne... Le donne di De Cataldo (magari sfortunatelle e un poco maltrattate) sono strepitose. Animali feroci, ritratti di pancia. Che fanno sognare e danno i brividi.

Se pensi poi al Paese che Giancarlo descrive, un Paese che tutti ricordano fin troppo bene e che di Bello non ha proprio niente, capisci che questo signore sa fare il suo mestiere.

Sul libro di Giancarlo vi consiglio di leggere la recensione di JP Rossano. La trovate qui: molte delle cose che dice JP le sottoscrivo in pieno.

JP è il secondo amico di cui vorrei parlare; il secondo compagnuccio, se preferite.

E di rigore, l’imbarazzo dovrebbe essere ancora maggiore perché del suo libro ho letto solo qualche riga.

Eppure…

Il libro si chiama L’ultima stoccata ed è edito da Il Molo.

È una storiaccia nera piena di cattivi, cruda all’inverosimile, con un detective privato che ha a che fare col più grande dei difetti nostrani (dopo il nepotismo, beninteso): la brama di potere.

Storia che garba facile al palato del sottoscritto, ma non è questo il punto.

Il punto è che JP scrive bene. Ci siamo conosciuti in rete e spesso scambiamo pareri e sagaci battute in tema di noir. Abbiamo in comune la passione della penna e del nero. E JP sa vedere (e raccontare) angoli che nessuno indaga, pieghe del nero inusuali, forti e difficili.

JP sa quello che fa con le dita sulla tastiera.

Per cui, se vi va, date un’occhiata al suo lavoro. E se invece volete risparmiare 11 eurucci, fate almeno un salto sul suo sito.

L’ultimo amico con cui voglio chiudere è Enrico Brizzi. E qui potete dirmi poco o nulla, davvero.

Io ed Enrico ci conosciamo per colpa di un amico comune: il regista Matteo Bellizzi (regista del booktrailer di Confine di Stato). E ci capita di tanto in tanto (l’ultima volta a Torino a maggio), di trovarci nella stessa stanza (generalmente con Matteo) a fumare Marlboro e raccontare aneddoti improbabili (e, rigorosamente, veri): tipo quella volta che Mr. Jack Frusciante alloggiò a Torino in un famoso hotel e, appena arrivato da Bologna, a tardissima notte, nella hall si beccò Bono Vox e Gorbaciov abbracciati come Franco e Ciccio…

Quindi, amici amici proprio no.

Conoscenti, forse. Ecco.

Mani avanti perché, anche in questo caso, ho adorato il suo ultimo romanzo.

E mica siamo partiti col piede giusto. A dire il vero, di suo, non avevo mai più letto nulla dai tempi del Jack Frusciante. Mica per sfiducia: Jack l’ho adorato, da ragazzo. Solo per fatalità. Enrico non scrive esattamente le cose che scrivo io, per cui…

Però Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro l’ho comprato. Vuoi perché eravamo a Torino e lo stava presentando, vuoi perché pareva molto ma molto brutto sedersi con lui e mille altri amici che avevano la propria copia sotto il braccio…

Ed è rimasto nello scaffale fino all’ultima tranche di vacanza.

Peccato. Perché è un libro da leggere all’inizio della primavera, quando i venti caldi spaccano l’inverno, e ti viene voglia di partire. Il pellegrino è la storia di un viaggio. Un viaggio che Enrico ha fatto veramente, l’estate scorsa. Un viaggio da Canterbury a Roma, lungo la Via Francigena.

A piedi.

Sì, signori, non fate quelle facce.

Non-so-quanti-cacchio-di-mila chilometri a piedi.

Un viaggio lungo una stagione. Un viaggio fatto l’estate dei Mondiali attraverso quattro nazioni.

Un viaggio che fa tremare i polsi.

Stupendi personaggi (su tutti Bern, il pellegrino tedesco tatuato a sfondo religioso dalla vita in su), una scrittura che fa sognare, non si discute.

Ma questo è soprattutto un libro che mette voglia di parte. Perché i luoghi sono reali, e sai che Enrico ci è passato davvero.

E quando lo vedi che si aspira una Marlboro dopo l’altra mentre ti spiega che sapore ha l’acqua sul Gran San Bernardo, pensi che, anche se pesi un quintale e il tragitto più lungo che fai è da casa al lavoro (cinquecento metri), potrebbe esserci anche per te della strada da fare.

Questo è quanto, signori.

Leggete, se gradite.

E fatemi sapere.

Io non vi do i soldi in dietro come Serino, ma mal che vada avete già comprato tre ragali di Natale.

giovedì 30 agosto 2007

Moro (quasi) trent’anni dopo: la vita umana non vale un paio di braghe calate? Calate, poi…


Sono giorni di lavoro intenso per il sottoscritto. Giorni a vivere nei documenti e a spulciare carte di processi, memoriali di trent’anni fa. Ho preso a pieno ritmo a lavorare a Settanta, e uno degli argomenti che devo affrontare, volente o nolente, è l’affaire Moro.

Sul peso che la questione avrà nel mio secondo romanzo, dico poco o nulla. La data di uscita è molto in là (manca poco meno di un anno), e quello che succederà nel libro non sono (per il momento) affari vostri.

O meglio, sono ancora e solo affari miei (e del mio editor), visto che la parte è in piena fase di stesura.

Ci mancherebbe pure che mi metta a spoilerare sull’incompiuto.

Affare di tutti, credo, invece, la memoria civile.

Più rileggo i memoriali di Moro, le lettere alla famiglia, le testimonianze degli ex Br, più è forte la sensazione di dolore, di disagio.

Più mi calo nella testa di Moro, più è intensa la domanda che rimbomba in testa: PERCHE’?

Non voglio disquisire di dietrologie politiche, per quelle ci sarà tempo e luogo nelle pagine del nuovo romanzo.

Quello che mi chiedo è semplice: si poteva evitare di sparare al Presidente?

E con tutta la malafede di cui sono capace, credo che la risposta sia comunque SI’.

Se si ripescano le testimonianze della Faranda, senza cedere troppo il fianco alla suo postumo pentimento “dissociato”, viene da pensare che, anche all’interno della dirigenza della Colonna Romana, alla vigilia del 9 maggio (nonostante la durezza dei comunicati), speranza ce ne fosse ancora.

Non si discute sull’azione dei Brigatisti: la loro è storia criminale. Niente giustifica il rapimento del Presidente. Né le gambizzazioni e le azioni terroristiche precedenti. Figurarsi un omicidio.

Eppure, quello che c’era sul piatto, alla vigilia del massacro, a modesto parere del sottoscritto, era sufficiente per concludere la vicenda senza spargimento di sangue.

A sentire la Faranda (ma pure a sentire Moretti), bastava uno scambio di prigionieri per salvare la vita a un uomo. I prigionieri avevano nome e cognome: Alberto Buonoconto e Paola Besuschio.

A dispetto del muro del silenzio che fece la DC, i socialisti avevano aperto un canale per trattare coi brigatisti. Poca roba, ne sono conscio, sei o sette incontri di Pace (ex simpatizzante BR) con la Faranda e Morucci. Incontri non ufficiali che si risolsero in un nulla di fatto.

Craxi il 30 aprile parlò con il leader socialista francese Mitterand e disse: “Moro può essere salvato; si può arrivare allo scambio uno contro uno; ma a qualcuno occorre del sangue. Quello di Moro giustificherà l’emorragia”.

Uno contro uno. Una vita per una vita. Anzi: nessuna vita sprecata.

Moro, dalla prigione di via Montalcini, così scriveva al collega socialista: “Caro Craxi, poiché ho colto pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi accentuare la tua importante iniziativa…”

Una vita per una vita, e invece…

Cosa chiedevano le BR? Legittimazione politica. E uno dei loro, condannato a otto anni e mezzo, libero.

Erano giusti i metodi delle BR? No. Erano criminali.

Era brava gente quella che chiedeva la liberazione del Presidente. Erano brava gente Craxi e i suoi? Per niente, e il Paese se ne sarebbe accorto presto.

Come non era brava gente la parte di DC che lasciò Moro crepare da solo.

Ma, in un Paese che di lì a qualche anno si sarebbe rubato persino gli spicci degli elettori (e poi ai ladri sarebbe toccato scappare con la coda tra le gambe all’estero), dove sarebbero state fatte leggi ad hoc per parare il culo a privati pieni di debiti, dove, trent’anni dopo, l’indulto avrebbe svuotato le carceri, signori, mi chiedo? La vita di un uomo (un santo? Un uomo per bene? Magari non meglio dei suoi compari, ma pur sempre un uomo) non valeva la scarcerazione di un delinquente comune?

E mi chiedo anche: di cosa aveva paura mamma DC? Se anche avesse formalmente riconosciuto le BR come forza politica, pensate davvero che di lì a poche ore si sarebbe ritrovata dieci parlamentari della stella a cinque punte fianco a fianco a Montecitorio?

Ma andiamo, questo non è un paese di verginelle e non lo era trent’anni fa.

Dove è convenuto (il mio maestro De Cataldo direbbe dove c’è stata convenienza) c’è sempre stato spazio per i riconoscimenti, le braccia aperte, gli “accomodasse”. Per poi voltar gabbana al primo intoppo.

E invece, trent’anni fa, nessuno mosse un dito per salvare una vita.

E adesso, mentre gli ex BR scrivono libri e vanno ospiti ai convegni, e fanno i documentari faccia a faccia con gli ex ministri dell’interno, qualcuno dei DC di allora (indovinate chi…) siede ancora in Parlamento.

Tutto è cambiato per rimanere uguale, nel BelPaese.

L’unica voce immutata è quella della famiglia di Moro. Di sua figlia Maria Fida.

La voce delle vittime: rotta dal pianto.

Anche quella, in Italia, è sempre uguale a se stessa.

mercoledì 29 agosto 2007

Da Arnold a Tarantino: vintage sì, ma non troppo


Se questo pezzo esiste, la colpa è di una delle mie pessime abitudini: il pisolino.

Lo so che fa vecchia zia in pensione, ma quando non lavoro (a scuola), dopo pranzo non so resistere: il richiamo del divano è troppo forte.

D’altronde (lo dico per darmi un tono) lo dice anche Stephen King che nel lasso di tempo immediatamente post-prandiale si sente come un boa che ha appena inghiottito una gazzella, e la pennica è l’unica possibilità.

Divano e tv, si diceva.

E verso le due la scelta non è ‘sto granchè. Su Italia Uno c’è l’ultimo strascico di Slam Ball e ti viene da seguir l’azione e saltare in piedi sul sofà. Su MTV le biondine in bikini di Laguna Beach e non chiudi occhio neanche a parlarne.

Meglio i cari, vecchi cartoni. Che sia DragonBall o Naruto, cinque minuti cinque e sono già nel mondo dei sogni.

Che poi, se cartoni devono essere, il digitale terrestre che l’hai preso a fare? Che quel signore basso basso e l’amico suo della Lazio hanno fatto una legge apposta.

E dunque: Boing. Ventiquattrore su ventiquattro di anime old school e ricicli Mediaset.

Niente da dire, perfetti per appisolarsi.

Il punto è quando ti svegli.

Ancora nel dormiveglia una musichetta mi catapulta indietro di vent’anni (guardate un po’ se anche a voi fa lo stesso effetto…). E mi ritrovo a pensare a me stesso su un tappeto di pelo arancione nel salotto di casa di mia nonna. A giocare col Lego e bere Estathé.

Ora, col vintage in qualche modo ci campo e ho abbastanza confidenza col passato da non farmi travolgere da facili entusiasmi alla Notte prima degli esami.

Però questo è davvero un colpo basso e non c’è santo che tenga: quando appare il faccino paffuto di Arnold non posso fare a meno di godermi l’intera puntata in religioso silenzio.

Oltretutto sono anche fortunato, perché l’episodio è una chicca. Quello in cui Arnold e il suo amico, in trasferta a Hollywood si perdono negli Universal Studios tentando di infilarsi sul set di Supercar.

C’è pure un ovvio cammeo di David Hasselof e del suo destriero parlante a quattro ruote.

Mi piacerebbe potervi dire che l’emozione mi ha travolto e “com’erano belli i telefilm di una volta, signora mia…”.

Ma racconterei delle balle.

Il tv show risente dell’età, e succedono cose improbabili: KITT parla davvero, anche se la guardia degli Studios chiama Hasseloff per nome e non “Micheal”. Arnold e il suo compare vagano per i teatri di posa deserti e a un certo punto un animatrone dello Squalo li spaventa a morte. E poi finiscono sul set della Famiglia Addams e un simil Lerch li mette in fuga…

Ok, il telefilm è di vent’anni fa. Ma per l’utente attuale la supposta sospensione d’incredulità è veramente troppo. Non la voglio fare troppo semplice, non fraintendetemi. Il telefilm era tutto da ridere e lo spettatore medio (dell’Ohio o di Rozzano, poco importa) non si poneva il problema. Il punto è che queste esagerazioni inquadrano il prodotto per quello che è. Negandogli l’immortalità.

Immortalità che serie come Star Trek o Spazio 1999, pur con le loro mille oscene ingenuità, hanno ottenuto.

La distanza tra le serie di ieri e quelle di oggi è sotto gli occhi di tutti. E non mi sognerei di affiancare nemmeno per un istante Arnold a Lost (ambiti troppo diversi).

Ad ogni modo, pur nello stesso campo da gioco, Arnold troverà un paio di righe in qualche dizionario dei telefilm, FRIENDS rimarrà nella storia.

Come c’è rimasto SUPERCAR.

Ci sono produzioni che diventano immortali. Altre che vanno a ingrassare il bagaglio retrò dell’appassionato di modernariato.

Uno dei fattori principali che influiscono sull’eternità di una serie è, io credo, la continuity.

Vent’anni fa gli show erano studiati per intrattenere a orari fissi con format rigidi, statici. La stessa scenetta che si ripete più o meno in loop puntata dopo puntata. Lo show funziona, ma non evolve.

In serie come Happy Days (cito questa per rimanere nel mainstream, ma potrei citare BlueMoon, la serie che lanciò Bruce Willis), invece, dopo un paio di stagioni, si scelse la linea della continuity, dell’evoluzione dei personaggi (Ricky va in Vietnam, si sposa e mette su famiglia. Chucky e Joanie si innamorano, convolano a giuste nozze e guadagnano anche la dignità di un spin-off, mai andato – credo; l’ho visto solo in inglese – in onda da noi).

Passa di lì la strada che ha portato alla costruzione del serial moderno.

Senza continuity, Lost non sarebbe niente.

Detto questo, arrivo finalmente a Tarantino, che occhieggia dal titolo e che ancora non ha avuto un minuto per dire la sua. E se parli di Tarantino non puoi ignorare il discorso sul vintage.

La Seventies-mania che ha investito il mondo globalizzato negli ultimi dieci anni ha fatto muovere i primi passi verso la riscoperta del nostro recente passato. Un passato essenzialmente pop (e tutto è pronto per il ritorno in pompa magna dei temibili Ottanta).

Il vintage, che negli Eighties era di pessimo gusto, ha recuperato dignità. E il futuro, che nell’ottantacinque scherzavamo a mascelle spalancate, assomiglia davvero a quello rappresentato in capolavori come Rollerball, dove le case del duemila sono piene di modernariato Anni Settanta e per ascoltare la musica si usa uno strano aggeggio rettangolare con una rotella in centro.

Un conto è, però, il recupero della memoria, un conto è il consumo critico.

Vintage sì, ma con jiuicio. Non vale la regola che se una cosa ha venti o trent’anni allora è cool di default.

Viva Bruce Lee, viva l’A-Team. Ma, vi prego, abbasso Arnold e abbasso Automan.

Un discorso simile deve averlo ben chiaro in testa Quentin Tarantino da almeno una quindicina d’anni.

Kill Bill è un capolavoro citazionistico. Mai pesante, ma sopra le righe (anche se, costantemente, oltre ogni riga). È un tributo al passato. Ma con uno sguardo insindacabile al futuro. La direzione in cui Kill Bill guarda è chiara. E il capolavoro di Mr. T. non assomiglia all’angelo della storia di Benjamin (non ha la capoccia storta à rebours).

E lo stesso discorso vale per il maltrattatissimo Grindhouse.

La versione mozzata che è arrivata in Europa presta maggiormente il fianco alle critiche. Le due ore di Kurt Russel che arrota passanti e belle sgnacchere è fuori contesto.

Consiglio agli appassionati di attendere il dvd americano in cui Grindhouse e Planet Terror non sono divisi.

Oppure di scaricarsi la versione originale del double feature col caro vecchio mulo.

Alla fine delle tre ore di spettacolo, la sensazione che rimane in bocca è ben diversa da quella che trasmette la proiezione del surrogato apparso nelle nostre sale.

Le due pellicole, tanto per cominciare, sono collegate (da minuscoli particolari, come accadeva nei nostri film a episodi degli Anni Settanta). E le storie sono buone storie. Con fascino retrò, questo è indubbio, ma modernissime (le ragazze di Grindhouse ascoltano l’ipod e mandano sms).

E queste storie estreme e ultraviolente, come solo Mr. T. sa creare, galleggiano in una cornice supercool, intervallate da finti trailer di finti film d’azione o de paura, da spot gustosamente antiquari che avvisano che il contenuto delle pellicole non è adatto ai più piccini, e altre mille chicche.

E esci dal cinema con la sensazione che i veri grindhouse, quelli di trent’anni fa, non fossero così divertenti (se li riguardi te ne accorgi subito). Così come i film di Bruce Lee erano molto più pallosi di Kill Bill.

Per cui, signore e signori: Vintage sì, ma non troppo.

E soprattutto con gusto e cabeza.

lunedì 27 agosto 2007

Politicamente scorretto e la long tail di CONFINE DI STATO








Che mi aveva scritto Lucarelli ve lo dissi. Qualche tempo fa.
E pure che mi aveva invitato a una manifestazione dalle parti di Bologna in autunno. O forse no?
Ad ogni modo, oggi è arrivato l'invito ufficiale, e il sottoscritto è a dir poco lusingato.
La manifestazione si chiama POLITICAMENTE SCORRETTO e si terrà il 23, 34 e 25 novembre a Casalecchio di Reno (BO). Se vi fate un giro sul sito vi renderete conto della portata dell'evento e del perchè io stia zompettando in giro per la stanza da circa un quarto d'ora.
Politicamente Scorretto è il primo evento culturale del nostro paese dedicato alla memoria civile dei siddetti "Misteri Italiani".
Scrittori (scrittori veri, tipo Fogli, Fois, Bernardi, mica scribacchini come il qui presente...), giornalisti (Deaglio, tanto per citarne uno) e uomini di legge si danno appuntamento per fare chiarezza. Per non dimenticare. Per tenere accesa la memoria.
Io interverrò sabato 24 novembre alle ore 17.30 in un dibattito intitolato MISTERI ITALIANI: IL NOIR CHE RACCONTA LA STORIA RECENTE.
Non so ancora insieme a chi sarò, ma c'è da giurarci che sarà un'esperienza indimenticabile.
Ora, mi rendo conto che siamo a fine agosto e che la cosa si farà non prima di tre mesi...
Ma non stavo più nella pelle e dovevo proprio dirvelo.
Ovviamente vi terrò informati.
Per chiudere, un'ultima nota vanesia (tanto oggi si sprecano). Su Unpercento, un blog letteral-politico bello e autorevole, si dice qualcosina di CONFINE DI STATO, che a quasi tre mesi dalla sua uscita continua a far parlare di sè (puoi capire che long tail...).
Il direttore del blog mi fa un complimento di quelli che non si dimenticano: have a look, please.
Thanks a lot.

sabato 25 agosto 2007

Per vedere ‘sta cazzata: cronaca greca di una settimana bollente


“…Per vedere ‘sta cazzata!” è una frase ricorrente dei viaggi miei e di mia moglie. È la frase che di solito pronuncio dopo aver percorso chilometri sotto il sole o nel freddo, giungendo sconsolato di fronte a qualche reperto storico magnificato dalla guida di turno. Negli anni è diventato un modo di vivere, quasi un cliché narrativo, e nessuno si offende più se io, a metà percorso, inizio a canticchiare: “Per vedere… Per vedere…” (esiste anche un motivetto abbinato allo slogan: lo inciderò in mp3 e lo posterò sul sito, promesso).

A questo giro, l’espressione di famiglia si è sprecata, ed è stata una Grecia un po’ meno convincente del solito.

Non sono mancate, ad ogni modo, le piacevoli sorprese.

Ma andiamo con ordine.

Partenza traumatica da Malpensa vecchia all’alba e alle otto, freschi come delle rose (rose che non hanno dormito per trentasei ore), appoggiamo le valigie sul suolo greco. Ritiro la macchina in cinque minuti (l’uomo dell’AVIS è efficiente ovunque, da Bangalore a Punta Raisi. Effetti collaterali della globalizzazione) e alle nove siamo già in viaggio verso il nulla.

Lo dico per chi non c’è mai stato: nei piccoli paesi ellenici dare un nome alle strade pare sia peccato. Per cui l’unico modo di trovare l’hotel è andare a chiedere in qualche bar e tentare di farsi spiegare la strada in un esperanto dei viaggiatori che sa d’inglese, greco e turco.

Così facciamo, ma l’uomo, in cambio dell’indicazione, pretende che ci si fermi ad abboffarsi nella sua taverna.

Calamari, insalata greca e un lontano parente del frico di cui ora mi sfugge il nome.

Il tutto innaffiato dalla locale Mythos e da due dosi da portuale di raki.

Per farvela breve: niente turismo culturale il primo giorno; pisolino e cenetta leggera. E arrivederci.

Da venerdì inizia il tour de force, altresì detto nazi tourism: se si va in un posto occorre vedere TUTTO. E poco importa se occorra svegliarsi alle sette e sciropparsi duemila miglia in macchina.

Per cui, vai col MUSEO ARCHEOLOGICO di Heraklion (chiuso per metà: dieci euro di biglietto per quattro frammenti di mosaico e una brocca – pure bellina – a forma di toro), la GROTTA DI ZEUS (saltata a piè pari: di fronte all’impervia salita preferisco una birra sotto le fresche frasche, mando la dolce metà in avanscoperta e mi accontento delle foto sulla digitale), le città di CANDIA e RETHIMNOS con quaranta gradi all’ombra.

Come? Mare, dite voi? Nei ritagli di tempo.

Sì perché c’è ancora da vedere l’ultima e la più strepitosa delle bellezze dell’isola di Creta: IL PALAZZO DI CNOSSO.

Premesso che temendo l’insolazione si punta la sveglia alle sette e mezzo (e già la giornata non ti sorride…), al palazzo è comunque impossibile arrivare prima di mezzogiorno.

Lontano, direte voi… Per nulla.

Il problema sono le autostrade greche. Il greco, fiero e rigoroso, non concede seconda possibilità: se a Roncobilaccio non vedi le indicazioni, puoi uscire e rientrare nel senso di marcia opposto.

Se a Creta ranzi l’indicazione KNOSSOS (scritta in greco e grande quanto un Gronchi rosa), affaracci tuoi.

Puoi solo fare inversione in piena autostrada (ma magari ti stuzzica l’idea di tornare vivo) o rassegnarti: l’unica via che ti riporterà al punto di partenza è una mulattiera spersa nei campi. Ti toccherà attraversare un mare d’ulivi e sentieri sterrati, farti quasi sparare dalla sentinella d’una base segretissima immersa nei boschi e stare molto attento a non investire la classica nonna greca (modello base: completo nero e fazzoletto in tinta legato sotto il mento).

Così, a mezzogiorno, quando il sole è allo zenith, ti ritroverai nel bel mezzo del Palazzo.

La storia la conoscono anche i bambini, e mia moglie me la ricorda per lenirmi l’insolazione e far sembrare meno scema la mia bocca spalancata per l’arsura: mi dice di Teseo e Arianna, ma soprattutto di Pasifae, che per capriccio divino, s’invaghì di una bestiola da tre quintali destinata al sacrificio e ci fece pure un figlio.

Chi non fosse sazio di dettagli pulp, può cliccare qui.

La visita dura una mezz’oretta, non di più. E non ricordo, giuro, quanto ho sborsato per il biglietto (l’ho comprato in bundle con quello del museo archeologico).

Ma quando finalmente guadagno la sommità del palazzo, mi appoggio tronfio a una delle due colonne ridipinte di rosso per i turisti (quella vera, l’altra è di cemento armato) e scruto finalmente l’enorme distesa di vasi finti, pietre vere interpolate da ferro, cemento e plexiglas e prato all’inglese, non posso che esclamare il più soddisfatto e fragoroso dei PER VEDERE ‘STA CAZZATA!

Questa la parte buffa e meno soddisfacente del viaggio.

Ma, come dicevo in principio, qualche soddisfazione c’è stata.

Il cibo, per esempio, ma soprattutto i prezzi. A pranzo non si è mai speso più di dieci euro per ingurgitare dell’ottima Pita farcita.

E a cena, è il caso di dirlo: mollami…

Il meglio fritto di pesce e la meglio moussaka, col meglio vino a prezzi ridicoli: trentacinque euro massimo. In due, s’intende.

E infine, gran godimento estivo sotto l’ombrellone (che, per inciso, con due sdraio costava sei euro al giorno. Quasi come a Forte dei Marmi…): la lettura.

In una settimana scarsa ho divorato due libri e mezzo (l’ultimo lo sto finendo in questi giorni).

KAI ZEN, LA STRATEGIA DELL’ARIETE

RIZZO-STELLA, LA CASTA

BRIZZI, IL PELLEGRINO DALLE BRACCIA D’INCHIOSTRO

E su questi libri, potete giurarci, ci scapperà qualcosa in più d’un post…

venerdì 24 agosto 2007

Tornato: un po' provato...

Gentili lettori,
ho rimesso piede sul suolo italico da ben più di ventiquattrore, ma non ho ancora avuto un secondo per scrivere... Chiedo venia.
E di cose da dirvi ne avrei pure un bel po', tra costumi greci, letture e riflessioni in riva al mare.
Giuro che domani posto qualcosa di decente.
Per ora, contentatevi di queste quattro misere rigacce strascicate...