Un grande classico delle mie presentazioni, specie quelle in università - meglio ancora se in platea c'è qualcuno (qualcuna) che ha letto CONFINE DI STATO - è la manina alzata al momento delle domande del pubblico, e il quesito a labbra strette, buttato lì tra lo scocciato e lo stizzito: "Ci può spiegare perchè nei suoi libri le donne sono spesso oggetto di violenza e perché escono sempre a pezzi dalle sue storie?"
Come a dire (ma nessuno lo dice a cuor leggero davanti a una sala piena. Specie se è seduto/a in mezzo a tutta quella gente): "Amico; parliamoci chiaro: nei tuoi libri gli esseri di sesso femminile sono di due tipi: troie o morte. E la prima condizione decisamente non esclude la seconda. Dimmi un po', bellezza: sarai mica misogino?"
Non credo. Ma, a dirla tutta, non sono neanche quel gran femminista. Almeno quando scrivo.
Scrivo libri pieni di tradimenti, misteri, scopate e morti ammazzati. E guerre, sgozzamenti, whisky, eroina, sangue e cazzi nel culo. E questa, che vi piaccia o meno, è roba da uomini (specie i cazzi nel culo, sì... l'umorismo da scuole medie resta sempre il mio preferito)
Mi interessano l'etica e l'estetica militare, l'amicizia maschile, l'onore e tutte quelle stronzate fasciste da film anni Ottanta. Perchè racconto storie di psicotici di estrema destra con la fissa per lo sterminio e il dominio del mondo.
Forse l'ho messa giù un po' dura, ma la sostanza è questa se si guarda ai miei primi romanzi.
Al momento le cose stanno un po' cambiando (nei miei nuovi libri sto raccontando due grandi personaggi femminili, riservando loro ruoli di assoluto primo piano), ma parlare di libri che ancora non esistono non ha molto senso, per cui atteniamoci ai fatti.
Per scrivere quel che scrivo, le mie letture devono gioco forza alimentare la fucina del sexploitation e della misoginia. Dunque è raro che legga scrittrici donne.
Primo perchè leggo, in genere, quasi solo romanzi italiani.
E in Italia, se ravani nella letteratura al femminile, nove volte su dieci peschi in una polla di minimalismo e belly lit che poco fa al caso mio, specie quando sono in cerca di combustibile per la mia macchina zeppa di esplosioni, cadaveri e pezzi di merda.
Lo so, esistono delle ottime eccezioni, ma sto parlando per grandi numeri. Percentualmente, al femminile, si parla più di sentimenti che di carriarmati.
E alla fine leggo poche, pochissime scrittrici.
Non esistono tuttavia solo i libri che macino in funzione di quello che scrivo.
C'è tutto un mondo di cose diversissime tra loro che mi bevo per puro diletto o per fatalità.
In questo varipinto calderone c'è tanta roba: dai fumetti americani, ai best seller, ai saggi di super nicchia su argomenti di cui non impipa ad anima viva nell'universo. Tanto per render ragione degli accostamenti, nell'ultimo anno e mezzo, all'interno di questa selezione mi sono capitati per le mani i seguenti titoli: Non vi lascerò orfani di Daria Bignardi, Maledetti fumetti di David Hajdu, Io e te di Niccolò Ammaniti, Crossovers (Vol. 1 e 2) di Win Scott Eckert e Fantastic Four: Books of Doom di Brubaker e Raimondi.
Da un mesetto a questa parte, nel tempo libero extra lavorativo, ho letto un paio di libri così interessanti che, una volta chiusi, ho avvertito l'impellente esigenza di scriverne.
E siccome di tratta di due titoli scritti da donne in cui si parla (maledettamente bene) quasi esclusivamente di donne, ecco spiegata l'ampia premessa di cui sopra.
Anyway, basta cazzeggio, e veniamo al punto.
I libri in questione sono ACCIAIO di Silvia Avallone e L'ALLIEVA di Alessia Gazzola.
Ci sono alcune superficiali analogie tra i due testi: autrici giovani (Avallone è dell'84, Gazzola dell'82), titoli in cui le rispettive case editrici (Rizzoli per Acciaio e Longanesi per L'Allieva) hanno creduto molto e che dunque sono arrivati sul mercato con una massiccia campagna promozionale, best seller entrambi, libri da classifica (esuberante ACCIAIO, beneficiario anche dell'effetto Strega, in alto in classifica per parecchio tempo; decisamente d'impatto minore L'ALLIEVA ma comunque capace di imporsi al quinto posto della narrativa italiana per un paio di settimane) molto apprezzati anche dalla critica (su ACCIAIO, sempre in occasione della sua partecipazione allo Strega, i giornalisti si sono arrovellati di più, oscillando dall'entusiasmo imbarazzante all'astio ingiustificato; per quanto riguarda L'ALLIEVA, basta dare un'occhiata alla rassegna stampa e al tono generalmente festoso degli articoli per rendersi conto della benevolenza con cui è stato accolto il libro), entrambe storie di donne raccontate da donne.
Le analogie tra i due testi finiscono qui.
ACCIAIO è l'esatto opposto di un romanzo di formazione: è un romanzo di sfaldamento. L'evoluzione randagia e sognatrice di una coppia di ragazzine dei palazzoni di via Stalingrado, a Piombino, cresciute in famiglie di operai (o ex operai) siderurgici, che ruotano attorno all'altoforno (il cicolpico AFO 4) della Lucchini s.p.a., la maggior produttrice di acciaio (appunto) del Paese. è il 2001: mentre le ragazze esplodono (non sbocciano, esplodono) nel cuore del loro tredicesimo anno di età, cercando l'amore, rovinandosi la vita, lasciandosela rovinare, distruggendo e ricostruendo un'amicizia, il mondo lentamente scivola verso l'11 settembre, che, nel vuoto pneumatico della Piombino popolare del metallo incandescente, della coca insufflata prima e dopo il turno, dei baci rubati sulla spiaggia povera e rovente, delle indicibili violenze chiuse a chiave dentro casa, è più liquefatto d'un calippo, più leggero - molto più leggero - della piuma di Forrest Gump.
E' un romanzo popolare, ACCIAIO, epico e tragico. Maledettamente serio, soprattutto quando parla di emarginazione. Le protagoniste si muovono in una riserva indiana abbondantemente lobotomizzata dai riflessi degeneri del consumismo e del post-berlusconismo più becero. E' un racconto impietoso della vacuità, dei sogni infranti di cui è imbottita la testa di tre generazioni, del fallimento dell'agiografia operaia. La vera forza del romanzo risiede nel ritratto degenerato di un mondo dove l'orizzonte è così basso da incapsulare ogni speranza nella gabbia asfittica del qui e ora. Dove contano i soldi (quelli che servono per comprarsi la Golf GT, la bamba, i vestiti che brillano e l'autoradio da un milione), che paradossalmente non bastano nemmeno per pagare le bollette. Dove si cresce a schiaffi, dove le conquiste sociali si fanno a colpi di fica e bacino, salvo poi scoprire che il vaggio di una vita non ha portato da nessuna parte. Nessuno si muove più di un passo, tutto gravita rognosamente intorno al quartiere, alla spiaggia, al night club dove, ancora, si scambia sesso per denaro, illusione di dominio per privazione di futuro.
E l'Elba, che galleggia fuori dalla finestra come un biscotto nel latte della colazione, è irraggiungibile.
La potenza del libro risiede proprio nell'inefficacia del percorso evolutivo delle due protagoniste (Anna la mora e Francesca la bionda: già, proprio come le merdose veline di Striscia), delle illusioni di cartapesta tipiche dell'età rubata, della fretta di crescere per poi scoprire che da grandi fa tutto schifo uguale. Che l'adolescenza, come recita l'esergo, è davvero un'età potenziale, ma comunque, in mezzo al fuoco delle siviere e alle alghe marce della spiaggia, al fumo - troppo fumo - dei bar di periferia, al sesso stantio sbriciato dietro persiane accostate per il troppo - troppo - caldo, non sboccia nulla.
Se non la rabbia.
Un romanzo di sfaldamento, ACCIAIO, un'epopea popolare sul fallimento a catena di troppe - troppe - generazioni.
Un libro necessario, una voce che mancava, e che risulta convincente soprattutto perchè viene da una giovane scrittrice.
Silvia Avallone ha dimostrato talento scrivendo un gran bel romanzo. E l'ha conservato, nonostante la bufera mediatica, il baillamme, l'inferno della critica e il paradiso dell'ovazione del pubblico, intatto. Per rendersene conto basta leggere il suo pezzo sul Centocinquantenario. Lucido, secco, tagliente come la lama di un rasoio. A bocce ferme (fermissime) a un anno dal botto. E senza scuse.
Altro paio di maniche L'ALLIEVA.
Altra storia, apparentemente agli antipodi: per genere (intrattenimento puro), per temi trattati, per impostazione, per contenuti.
La fascetta appiccicata al volume recita: HA STUDIATO DA KAY SCARPETTA, E' IRRESISTIBILE COME BRIDGET JONES, MA VIENE DALLA TERRA DI MONTALBANO.
Messa giù così, uno si aspetta di acquistare un thrillerone modello IL SUGGERITORE o tutt'al più l'ennesimo clone di Faletti.
Sbagliato.
Mai fidarsi delle fascette.
Il misunderstanding comunicativo ha deluso gli amanti del genere, che si aspettavano di scoprire nell'opera prima di questa giovane specializzanda in Medicina Legale - che guarda caso racconta le avventure di una specializzanda in Medicina Legale, appena più giovane di lei - una novella Cornwell.
E, pagina dopo pagina, magari divertendosi pure (il libro è oggettivamente divertente, ora parliamo del perchè), hanno covato un risentimento rancoroso. Nel mio milieu - composto, ci tengo a dirlo, di autori e redattori parecchio open minded e generalmente disposti ad accogliere le novità - ho sentito più di un commento negativo sul libro. In sostanza, chi ne parla male, dice: "Ma non c'entra una mazza col noir! Non è mica un giallo! E' una creatura del marketing!" e cose del genere.
Hanno ragione su quasi tutto: L'ALLIEVA non è un noir e non è un giallo. Non un giallo classico, almeno. E, sicuramente, ha avuto una campagna marketing più che solida da parte dell'editore.
"Embè?", viene da dire.
Niente di tutto questo, per come la vedo io, scalfisce di un'unghia il suo valore.
La comunicazione editoriale può essere stata furbetta, per carità, ma senza ciccia non si va da nessuna parte. E qui, datemi retta, ciccia ce n'è parecchia.
Dietro questa storia che ruota intorno alla misteriosa morte di una ragazza della Roma bene, nel turbine delle indagini intorno alla quale viene coinvolto un parterre di borghesucci sdruciti, berlusconiani spocchiosi ma molto professionali, studentesse determinate e spendaccione, bellissime e vacue, mercuriali e coriacee, c'è una ricetta che fonde insieme ingredienti smaccatamente eterogenei.
L'ALLIEVA non è un thriller.
Nè un giallo.
E' un pastiche a metà tra la chick lit più incline alla commedia (Bridget Jones, per intenderci), la narrativa rosa di consumo, la fashion comedy à la Sex & The City, il medical drama modello Grey's Anatomy e la detective story in stile Dottor House (occhio: non CSI e nemmeno Kay Scarpetta). Il tutto abilmente spolverato di una favolosa e sconvolgente ironia nipponica (ci sono passaggi da farsela sotto. Letteralmente. Uno su tutti: la coinquilina giapponese della protagonista che non ha una gran confidenza con la lingua di Dante e, quando implora, invece di "Ti prego!" esclama contrita: "Ti pecoro!") e, last but not least (ed è proprio questa la ciliegina sulla torta), innerbato da un'analisi sociale netta, impietosa e determinata.
Quando ho chiuso il libro, benché divertito (parecchio divertito), ero un po' incavolato con la protagonista. Alice Allevi, la giovane specializzanda in medicina legale che si ritrova a indagare sul caso della povera Giulia (povera perchè morta, ma in realtà ben ricca di famiglia. E che famiglia! Classica, benestante, impeccabile, piena di pregiudizi e scheletri nell'armadio), che si fidanza col bell'Arthur (ricco pure lui, ma ribelle. Perché abbandona il posto fisso nella prestigiosa rivista per andare a fare il reporter d'assalto. Ma sempre con un borsone North Sail appresso), che flirta con quello stronzo berlusconiano del suo capo Claudio, che si sputtana lo stipendio in vestiti, che sfotte le colleghe cesse e il look "da sfigato" dello sbirro Calligaris, che combina un sacco di casini ma se la cava sempre, mi stava decisamente antipatica.
Quando ho conosciuto l'autrice, le ho chiesto se era questo l'effetto voluto, oppure la piccola Alice mi sta sulle palle perché sono un rozzo mangiabambini senza Dio.
Alessia Gazzola mi ha fornito la chiave di quel libro (e di quelli che verranno. Le avventure della giovane trinciacadaveri avranno un seguito. E forse più d'uno.): Alice è casinista, superficiale, consumista, testarda, e sì, maledettamente fortunata. E' la dimostrazione vivente che la fortuna non sorride agli audaci, ma a coloro che non se la meritano. Ma il percorso di Alice è appena cominciato. Nella miglior tradizione della medical fiction d'oltreoceano, è prevista un'evoluzione del personaggio lungo i tre anni di percorso professionale (tanto dura la specializzazione in Italia).
L'ALLIEVA è pertanto perfettamente speculare ad ACCIAIO, nella misura in cui è il primo tassello d'una serie di romanzi di formazione. La specularità (considerazione mia, a questo punto, l'autrice è esautorata dalla responsabilità di questa riflessione. Che peraltro ha tutto il diritto, come voialtri del resto, di considerare ininfluente, non calzante o addirittura off topic) consiste anche nel tipo di scenario che dipinge: quello d'una borghesia vuota e vanesia, che si riempie la vita di viaggetti, shopping, capricci, sordide relazioni, trasgressioni in bustuna di plastica e, quando perde il controllo della situazione, di morti ammazzati.
L'esito etico al fondo del romanzo, soprattutto alla luce delle considerazioni dell'autrice stessa (per esempio riguardo a Claudio, lo stronzo superiore berlusconico con cui Alice flirta e di cui, com'è come non è, subisce il fascino lubrico: concepito come un personaggio assolutamente negativo e imbevutosi, chissà come, d'un alone accattivante) è che i cattivi non cambiano mai, ma per i buoni (e Alice, benché per il momento un po' antipatica, è buona davvero) c'è speranza.
Il che, alla fine, pare piuttosto confortante.
Sono ansioso di vedere come cambierà, crescerà ed evolverà la dotoressa Allevi, e spero vivamente che non perda per strada la sua involontaria political uncorrectness. Pur senza diventare, mi auguro, una scialba santarellina à la Meredith Grey.
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2 commenti:
Si ma alla fine st'Allieva lo si deve leggere o no?
Sì, ma con la giusta predisposizione d'animo: è più Grey's Anatomy che Patricia Cornwell, e questa è esattamente la sua forza.
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