DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

martedì 25 settembre 2007

Due parole su Dalla Chiesa e Giannini

Pubblico questo post rubando la connessione a un amico generoso. La latitanza del provider persiste, ma ogni tanto riesco ad ovviare. Chiedo scusa a tutti quelli che mi scrivono, per i lunghi ritardi nelle risposte. Come diceva quel signore con la faccia bianca, "Non può piovere per sempre". Prima o poi l'esilio telematico finirà. Per ora, beccatevi questo "posticino" su tv e dintorni. A parziale ricompensa dell'affetto di voi lettori nonostante la serrata forzata.

Questo post, oramai, è stravecchio, ma conserva una sua dignità dal momento che è stato scritto il giorno prima che Cheapnet mi staccasse la spina.

L’argomento, di per sé, non è più così attuale (è passata qualche settimana), ma credo che valga la pena spenderci un paio di parole. Specie perché ha molta attinenza con ciò di cui parlo in Settanta.

La fiction su Dalla Chiesa. Parto diretto, così ci capiamo subito: non mi è piaciuta.

Doverosa premessa: mi sono fermato alla prima puntata. La seconda non l’ho vista perché ero fuori a cena.

Mi riprometto di guardarla prima o poi, ma temo che non possa cambiare radicalmente le mie impressioni.

Il mio riferimento assoluto, in termini di fiction italiana, è ancora l’inarrivabile PAOLO BORSELLINO alla cui sceneggiatura collaborò De Cataldo. È uno standard piuttosto alto, ne sono conscio. Ma credo che tra tanta paccottiglia sia l’unico tentativo riuscito. Almeno fino ad oggi.

Nel lavoro di De Cataldo e soci i protagonisti sono estremamente reali e i dialoghi sono piccole opere d’arte (uno su tutti, quello tra Falcone e il boss all’Ucciardone).

Non discuto gli aspetti squisitamente cinematografici (fotografia, regia, ecc.), ma l’ensamble regge per tre ore e fischia, con momenti di grande pathos ed emozioni forti da blockbuster “ammerigano”.

Se veniamo al Dalla Chiesa di Canale Cinque, invece, l’impressione non è tanto diversa da quella che mi lascia in bocca il R.I.S.: vorrei ma non posso.

Come ho già scritto altrove, trovo controproducente scimmiottare una grammatica che non ci appartiene.

Riproporre pedestremente inquadrature, dialoghi e situazioni che in mano a Bruce Willis fanno sognare, messe in scena dai nostri attori fanno a malapena sorridere.

Mi riferisco, nello specifico, all’irruzione nel covo delle BR, alle sparatorie, alle semplici risse, agli inseguimenti.

Maurizio Merli e Luc Merenda parevano divi di Hollywood a confronto delle guardie e dei ladri che ho visto l’altra sera.

Inoltre, se la buonanima del Maurizione nazionale se la doveva vedere al massimo con Milian (ai tempi di Roma violenta ancora serio e compassato nei panni del Gobbo), questo manipolo di attori così così proprio non poteva reggere il confronto con Giannini. Sfida impari: quattro a zero e tutti a casa.

Giannini, oltre ad avere la voce più bella del panorama del doppiaggio italiano (dopo la dipartita del buon Ferruccio, tocca a lui tirare la carretta), è un signore che il mestiere lo fa da qualche anno. E per inciso l’ha sempre fatto da Dio: se pensate al passaggio dal mozzo terroncello di wertmulleriana memoria all’ispettore malandato che dà la caccia ad Hannibal Lecter, capirete di che parlo.

Giannini è un’interprete vecchio stile con una voce da un milione di dollari. Se non gli affianchi al Pacino (e già… E poi chi lo doppia?), la sua presenza triterà chiunque. Per cui, i comprimari con l’accento di Portici o del Testaccio paiono fuori luogo a fianco di cotanta raffinatezza, rendono la scena surreale.

L’unica interpretazione che vale qualcosa è quella del folle intervistatore al citofono di Parla con lei. Geniale: il suo è un brigatista hard-core. Di quelli veri. Gli altri (Curcio per primo) sono macchiette finto U.S.A.

L’insieme è “vorrei ma non posso” perché la storia del movimento e delle Brigate Rosse è eccessivamente stigmatizzata. E Dalla Chiesa è vittima del solito approccio delle fiction biografiche di casa nostra: l’agiografia.

Ora, sono conscio che scrivere un lungometraggio su un uomo di Stato sia sempre un casino. Specie se si tratta del tipo di uomo di Stato che piace a tutti, perché combatteva i cattivi ed è pure morto sul lavoro.

Creerebbe problemi un personaggio come Pertini, di cui nessuno s’azzarderebbe a dir male (e invece, a sentir chi l’ha conosciuto, non era ‘sto stinco di santo e nemmeno ‘sto gran statista. Pare preferisse le strisce di Tex e Nembo Kid a Levi e Pavese e che avesse il terribile viziaccio di barare al gioco). Figuriamoci un’icona come Dalla Chiesa.

Però, come mi hanno fatto notare i Wu Ming a proposito di Confine, se fiction e storia devono andare a braccetto (e la fiction vuole accollarsi una funzione pseudo-didattica), allora bisogna contarla giusta.

Dalla Chiesa è stato un immenso servitore dello Stato. Ma nel suo passato ci sono macchie pesanti, come l’iscrizione alla P2. E nel tv show sembra che ci sia costretto dagli eventi. Addirittura passa una notte insonne e il mattino dopo va a levarsi d’impiccio. Ma mi sa che la questione era un po’ più complicata…

Dalla Chiesa è stato un duro avversario della criminalità organizzata e del terrorismo rosso. E da combattente sapeva che in guerra nessuno risparmia nessuno. L’introduzione degli Speciali non fu una semplice reazione alla eccessiva violabilità delle carceri nostrane. Fu un atto di guerra.

Stesso discorso vale per la durezza della sua repressione nei confronti delle BR. Dalla Chiesa non si tirò indietro quando fu ora di dimostrare a quegli uomini di ferro quanto fosse tutta d’un pezzo la sua volontà di schiacciarli. A Genova, si macchiò dello sterminio di un intero commando terrorista. Sorpreso nel sonno e trucidato senza il minimo ripensamento. Anche quello fu giudicato come atto legittimo. Perché a tutti gli effetti si trattava di un’azione di guerra.

Guerra sul suolo italiano. Guerra di Italiani contro Italiani.

Questi erano i Settanta e questo era il lavoro che toccò a quell’uomo. Lavoro da soldato, non da sbirro.

E invece in tv lo si vede sempre e solo come un uomo per bene che faceva ciò per cui era pagato. Che non sparava mai per primo o alle spalle.

Stesso discorso si può fare sulle BR.

La realtà del movimento non era quella del commando da operetta che abbiamo visto in tele.

Pare di stare a guardare i terroristi che si affannano a non far dormire Jack Bauer. Soldatini pazzi e determinati che mettono in scena una rivoluzione blasé, tutta palle e mai un passo indietro.

La complessità del movimento sfugge all’icona televisiva. L’aria irrequieta dei covi non arriva allo spettatore. Non arriva la determinazione degli organizzatori e non arrivano i dubbi degli operativi. Non c’è la polemica sull’innalzamento dello scontro che portò al sequestro e all’uccisione di Moro. Non ci sono le vittorie fortuite dei terroristi che si trasformano in bandiera per il reclutamento. Non c’è la strafottenza dello Stato nei confronti dell’organizzazione. Non c’è la manipolazione dei dirigenti di colonna sui ragazzi che fecero fuoco.

Non c’è l’immagine nitida del folle sogno di pochi che si tramutò in un grido disperato: in Inghilterra i Pistols suonavano nei giradischi dei ventenni arrabbiati. Da noi, in quegli anni, la rabbia si tramutò in P38, in mano ai coetanei dei fan di Rotten e soci. E lo Stato se ne accorse quando oramai era tutto fuori controllo.

Tutto questo non l’ho visto in tv l’altra sera. Ho visto solo un’occasione presa al volo da sceneggiatori e producer: trasformare in un clone di CSI trent’anni di storia recente.

I‘m so sorry, folks, ma non è questa la fiction che ho in mente.

venerdì 21 settembre 2007

Offline fino ai primi d'ottobre: mannaggia a fastweb...

A dispetto del nome, Fastweb non è poi così veloce. Almeno nell'installazione degli apparati.
Ho parlato pochi minuti fa con la signorina, e mi ha appena comunicato che il tecnico verrà a casa Sarasso martedì 2 ottobre. Metti che il lavoro vada per le lunghe, metti che serva ancora qualche gorno per essere online, fai pure che ci si rivede verso il dieci di ottobre.
Meno male che il contratto l'ho firmato in data 31 agosto...
Chiedo scusa a tutti i lettori per la lunga pausa, e lo faccio con questo post pubblicato di straforo da un computer in prestito. Vi prometto che al mio ritorno ci saranno molte sorprese, e se avrete la pazienza di aspettarmi, saprò come ricompensare la vostra attesa.
Durante l'esilio telematico sto scrivendo diversi articoli, che pubblicherò non appena disporrò di una connessione.
Qualche anticipazione sui temi (alcuni dei quali suggeriti direttamente da voi): la fiction su Dalla Chiesa, il mio racconto per i KAI ZEN, il V-Day di Grillo, l'integrazione.
Per ora, ma le dita sulla tastiera lavorano duro.
Ci saranno novità anche sul fronte United We Stand.
Colgo l'occasione per scusarmi anche con gli amici KAI ZEN: prima del black out avevo promesso che avrei messo online il mio Sentiero di Seth. Purtroppo non mi è stato ancora possibile.
In compenso, però, lo trovate già sul sito dell'Ariete (www.lastrategiadell'ariete.org).
Questo è quanto.
Tenete duro, ci sentiamo presto.

venerdì 7 settembre 2007

La serie tv ai tempi di Emule parte due: un approfondimento

La discussione sui serial è talmente interessante e ricca di contributi, che vale la pena di spendere un post in più per tirare un po’ le fila del discorso.

Vladi (commentando il mio primo articolo in merito) chiede perché in Italia non ci sia spazio per fiction come si deve, fatte all’americana, con trame complesse e con un potenziale attrattivo sul pubblico tale da accaparrarselo per venti e più puntate a serie.

Personalmente credo che, oltre agli ovvi discorsi di budget (da noi non ci saranno mai i mezzi di una produzione americana, a meno di non coinvolgere in coproduzione gli studios), la questione abbia a che vedere col pubblico e con la nostra tradizione cinematografica.

Il pubblico del Dottor House non è lo stesso di Incantesimo, non ci piove. E all’utente medio di Incantesimo (mia nonna) basta molto poco per tornare. Una bella e romantica storia d’amore, un pizzico d’intrigo (ma non troppo, ché se no ci si perde) e, se avanzano i soldi, uno sfondo sfizioso (di solito storico: vedi Elisa di Rivombrosa, piuttosto che il già citato Garibaldi).

Questo perché, come afferma Steven Johnson in Tutto quello che fa male ti fa bene (Mondadori, la segnalazione è sempre dell’ottimo Vladi), quel pubblico non viene dai videogiochi, ma dai fotoromanzi, dagli Harmony, da Beautiful e dai romanzi di Rosemary Altea.

Senza negare l’impatto culturale che quarant’anni di fiction rosa hanno avuto su quattro generazioni, è evidente il peso specifico di questo tipo di prodotti.

Totalmente diverso da quelli di cui si discute in queste righe.

In America la spettatrice di Beautiful è anche la spettatrice di CSI. E novanta su cento è stata al cinema a vedere Matrix. L’influsso della fiction mainstream sul pubblico americano è assolutamente trasversale.

Perché parliamo di persone che si possono permettere la TV via cavo.

Senza cable tv, in America vedi solo notiziari (zeppi di cronaca locale e privi di accenni al contesto non americano), film vecchi e tv show low budget.

Da noi la cosa è diversa: benché Sky si stia diffondendo a macchia d’olio, lo spettatore tipo di Incantesimo, a meno che non abbia un marito tifoso di calcio, non sottoscrive un abbonamento Sky. E, conseguentemente, non ha accesso al mainstream americano.

L’alternativa che resta a questo tipo di spettatore, è per l’appunto Incantesimo e compagnia bella.

Pur essendo conscio che la mia è una generalizzazione da spender poco, rimane un dato di fatto: la penetrazione della pay tv nel nostro paese (e dunque l’accesso a fiction di elevato standard americano) è recente. E ancora più recente è quella dei canali tematici per i serial (Fox Crime, FX,ecc.).

Il pubblico italiano non è quello americano. E gli attuali fruitori di House e soci, vent’anni fa, erano potenziali spettatori da Incantesimo (mia nonna mi piazzava, piccinino, a giocare coi Transformers mentre lei si sparava Sentieri - “This is the tiiiiiiiiiime! To remember…”, il motivetto echeggerà nelle orecchie di molti – e devo dire che poco o tanto la storia m’intrigava. Dopo i primi dieci minuti era una specie di droga. E quasi quasi appoggiavo sul tappeto Megatron per fissare lo schermo).

Di mezzo, come racconta Johnson, ci sono stati PacMan, SuperMario e giù giù fino a Metal Gear. Aggiungici Tarantino, I soliti sospetti e Fight Club ed eccoci a sbavare per LOST.

Noi, questo nuovo tipo di pubblico italiano, storciamo il naso con La Squadra ma andiamo matti per Romanzo criminale. E qui arrivo al punto.

Lodevole ma fallito il tentativo del RIS di scimmiottare grammatiche che non ci appartengono. Il capitano Venturi che guarda in camera e dice: “mettiamoci al lavoro” ogni dieci minuti, i jingle tesi e le inquadrature volanti alla CSI ci fanno sorridere. E forse apprezziamo di più CSI Cologno, la parodia di Sputnik con Gianni Fantoni, del simil Grissom di Alexis Sweet (già assistente alla regia di quel capolavoro che fu Il silenzio dei prosciutti di Ezio Greggio).

E allora?

E allora occorre provare a percorrere una strada diversa. Quella che, per esempio, ha percorso Placido in Romanzo criminale. I nostri criminali possono essere duri come quelli americani. Ma non devono parlare come in un film USA. Devono parlare romanesco, napoletano, milanese se sono i ladri della Milano Settanta.

Vediamo però di non scadere ancora in una nuova generazione di poliziottesco à la Maurizio Merli. Che trent’anni fa ci poteva pure stare (ma già gli americani facevano Scarface mentre noi giravamo Milano violenta), ma ora il pubblico è cresciuto.

Adesso mi accuserete di tirare l’acqua al mio mulino, ma è possibile che noi non si riesca a raccontare in maniera decente il marcio del nostro paese? Dopotutto, Spike Lee sta girando un film sulla strage di S. Anna di Stazzena. Perché noi non dovremmo essere in grado di fare una serie su Piazza Fontana? Una serie che sia in grado di catturare gli stessi spettatori di Romanzo criminale (che poi siamo noi, quelli che guardano Heroes e LOST).

E qui il cerchio si chiude: si ritorna al budget. Ma non si tratta necessariamente di un cane che si morde la coda. Se RAI e Mediaset hanno il braccino troppo corto, forse è il caso di andare a bussare alla porta del sciur Murdock, che di soldini per le nuove idee è più prodigo.

Per cui non sarebbe male mettere in piedi un bel progettino (la presente è un invito ad alta voce per i miei maestri e i miei illustri colleghi: leggi Wu Ming, Kai Zen, Valerio Evangelisti e potrei continuare…) di fiction seria per SKY. Che, non me ne voglia il mio mentore Giuseppe Genna, ma Suor Jo, la “Twin Peaks dei poveri”, come lui stesso l’ha definita, faceva cascare le braccia pure a me…



P.S.
Scusate, ma questa dovevo proprio dirvela. L'aggiungo in coda, per non farci un altro post e togliere visibilità a questo.
Cercando immagini per questo post, ho scoperto una cosa allucinante su Sentieri.
La Marvel Comics ha fatto un cross-over tra i suoi personaggi (Woverine, Spidy, ecc.) e i personaggi di Sentieri (in originale Guiding light). Cliccare per credere (il riquadro in cui c'è scritto Marvel/Guiding Light crossover).
Se non hard-core-pop-culture questa...

Cambio provider seconda puntata: l'odissea del bollettino


Ora so che i miei guai col cambio di provider inetresseranno a pochi. E che magari avreste preferito un altro bel pezzo di pop culture sui serial o sul noir de noantri.
Però uno può mica mettere giù un pezzo al giorno... Specie se gli tocca spendere la mattinata in giro per uffici postali e copisterie.
Ma partiamo dall'inizio: stamattina mi alzo prestino (mia moglie ha ricominciato a lavorare) e alle otto sono già con the e biscotti davanti alla tastiera. L'idea è quella di iniziare a scrivere il racconto per i KAI ZEN. Ho già un'ideuccia. Un classico milanese: la rapina di Via Osoppo.
Sto scartabellando della documentazione quando sul cellulare mi arriva un messaggino:
Buongiorno, siamo di cheapnet.it Chiami questo numero per info sulla disdetta del servizio.
Io strabuzzo gli occhi: che mo' me tocca pure pagà a me?
La risposta è sì. Se vuoi che la smettano di prosciugarti il conto e ti lascino libero di passare a Fastweb devi chiamarli.
E chiamo...
Venti minuti di attesa con una musichetta gustosa in loop e finalmente l'omino mi risponde.
"Avete ricevuto la raccomandata della disdetta?", chiedo innocente.
"Certo!" mi risponde l'omino. Ma non possiamo interrompere il servizio.
"Perchè?", chiedo io con labbro pendulo e bocca spalancata.
"Perchè non ha pagato i diciotto euro per la disattivazione."
"Li pago, non c'è problema, prendeteli dal conto dal quale prendete l'importo mensile."
"Ah, no! Deve fare un bollettino. E poi faxarci la ricevuta. E poi, siccome non ci ha ancora fatto il bollettino ed è già il 7 settembre, le tocca pagare pure la fattura che abbiamo emesso oggi e che copre il periodo fino a dicembre."
Ma dico? Ti ho mandato apposta la raccomandata per evitare di pagare due mesi che non userò. E te l'ho mandata venerdì scorso - mannaggia a te e a tutta la tua famiglia - proprio per evitare di pagare 'sti due mesi.
Ma non ho voglia di inalberarmi, dal momento che ho già un appuntamento col tecnico di Fastweb per il 17 settembre.
"Va bene, quando faccio il bollettino vi pag pure la rata. Quant'è?"
"La rata e tot", mi dice, "ma la preleviamo direttamente dal conto, non si preoccupi."
Ma io dico: la rata sì e i diciotto euri no?
"Ah, e mi raccomando, specifichi nel fax che vuole il distacco della linea in breve tempo, perchè se no le rimane su fino a dicembre."
Beh, certo... Ma vattela a pijà 'n der...
Per cui esco, pago, faxo (con precisazione).
E mo' stiamo a vedere...
Ma mi sa che ci sarà un'altra puntata della telenovela Cambio provider...

mercoledì 5 settembre 2007

La serie TV ai tempi di Emule: come cambia il mondo, signora mia


C’era una volta Happy Days alle otto di sera. E il giovedì, alle otto e mezza, prima davano l’A-Team e poi MacGyver.

Oggi, invece, c’è un palinsesto che da settembre sembra quello della Fox: ogni sera una serie diversa (Heroes, Doctor House, Grey’s Anatomy, Ugly Betty, C.S.I.). E mica su Sky: tutto MADE IN ITALIA UNO.

E la RAI che deve fare? Si adegua. A breve, ripartiranno E.R. e Desperate Housewives.

Ora, lo so che una volta qua era tutta campagna, signora mia, ma mi piacerebbe andare un po’ più a fondo alla questione e cercare di capire cosa rende le serie TV contemporanee dei veri fenomeni di massa mentre i suoi prodromi di vent’anni fa erano poco più che passatempi per ragazzetti brufolosi.

Inizierei con una distinzione tanto banale quanto fondamentale: la continuity.

Nelle serie contemporanee (in quasi tutte: C.S.I. fa eccezione) si è prediletta la scelta della long-story a capitoli ai danni del format che negli Ottanta ha fatto la fortuna di molti serial, da Supercar a Ripide.

Niente più single-shot ripetitivo da quaranta minuti (in cui l’azione è consolidata secondo domestiche e rassicuranti linee guida: 1) succede qualcosa di terribile e qualcuno è nei guai 2) L’eroe è chiamato in causa – in genere da vecchi amici - o si ritrova nel bel mezzo dell’azione 3) L’eroe risolve il pasticcio), ma una ventina di capitoli (sempre da quaranta minuti, perché i tempi del broadcasting sono quelli dagli anni Cinquanta: spazi da un’ora per serial e pubblicità) attraverso i quali una complessa trama pluri-personaggio si dipana.

Personalmente non ho mai amato la formula single-shot.

Ma credo che ci siano delle concause nella mia preferenza.

Troppo facile sarebbe sparare sulla Croce Rossa degli sceneggiatori: per forza di cose, vent’anni fa gli script erano più ingenui e bacchettoni (anche se certi episodi di Starsky & Hutch fanno ancora drizzare i capelli in testa), le tecniche di ripresa erano quello che erano (c’era una differenza di budget colossale tra i blockbuster e i serial) e, soprattutto, il pubblico era troppo inesperto per gestire trame come quelle odierne.

Film come I soliti sospetti o Fight club ci hanno resi il pubblico che siamo. Guardando The Prestige mezzo inganno l’ho capito prima della fine; vent’anni fa avrei avuto difficoltà a starci dietro.

Parlando di pubblico, si apre la parentesi Emule, che molto ha a che vedere con la fruizione delle serie nel XXI secolo. I giornali la vedono ancora come un fenomeno di nicchia, ma io non la bevo.

Grazie a internet è nato un nuovo modo di fruire il serial.

Il p2p permette cose che dieci anni fa erano impensabili: seguire le serie in contemporanea con l’uscita U.S.A., vederle in originale e, soprattutto, vederle in blocco.

Se per LOST il giorno dopo la proiezione americana in rete recuperi già la puntata sottotitolata (merito anche di Itunes, che la vende a un euro), ci sono seriali (vedi The Shield) che ci mettono un po’ di più ad arrivare online.

Comunità intere si occupano delle release delle stagioni. La qualità dei divx è impressionante.

E l’utente paziente dotato di ADSL può ritrovarsi per le mani tutte le puntate di una season in una botta sola.

Questo succede da noi, ma nella patria del Presidente Bush stanno avanti di qualche anno (uno dei protagonisti di LOST ha candidamente ammesso con la stampa che i suoi amici e la sua ragazza si scaricano le puntate dello show).

E a questo nuovo fenomeno le major non sono indifferenti.

Prendete Heroes. È costruito esattamente per essere visto “di seguito”.

Qui c’entra anche la parentela coi comics: leggere una serie in volume è meglio che farsela a puntate.

Ma il senso non cambia: se in 24 o in Prisonbreak l’attenzione a fare di ogni episodio un gioiello perfetto che va a incastonarsi nel diadema della serie è altissima, nel nuovo serial di supereroi è minore.

Le singole storie respirano se godute nella soluzione one-shot. Divertono pochino se prese a piccole dosi.

E questo l’hanno capito anche i nostri programmatori.

Di base, qui da noi, per un retaggio degli Eighties che voleva che la prima serata in tv durasse due ore (allora si mandavano in onda cinque volte i film che si proiettano ora), le serie si è iniziato a venderle due episodi alla volta.

E guarda caso, Heroes è stato proposto in una formula insolita: quattro puntate tra domenica e lunedì scorsi.

Questo perché Heroes non parte a bomba. E a parte l’addicted, il fan sfegatato – che la guarderebbe comunque - l’utente italico medio si spalla e non torna. Ecco perché servono quattro puntate in fila: per far sentire gli spettatori di Italia Uno come i geeks (tra cui il sottoscritto) che la serie se la sono sparata di seguito e in anteprima (leggi: minimo due/tre puntate a sera).

Pubblico e fruizione hanno dunque un peso specifico sul successo della nuova generazione di telefilm.

Ma credo che il valore intrinseco di questa deliziosa (seppur datata) forma di entertainment sia dato dalle opportunità di sviluppo della trama che al cinema sono, per forza di cose precluse.

Grazie a Dio l’establishment degli Studios si rinnova e ricalcola il tiro in base alle nuove esigenze del pubblico. E dunque, da qualche anno a questa parte, al botteghino spuntano come funghi trilogie assolutamente memorabili (ultima in ordine di tempo – una vera bomba atomica per trasversalità di pubblico – I pirati dei Caraibi).

L’allungamento dei tempi narrativi permette profondità mai raggiunte prima dal cinema mainstream. Raccontare una storia in due ore è un conto. Farlo in venti, come direbbe Jules Winnfield in Pulp Fictionnon e' lo stesso fottuto campo da gioco, non e' lo stesso campionato e non e' nemmeno lo stesso sport”.

In questo senso, 24, la serie con Kiefer Sutherland, è il capolavoro assoluto. L’idea della narrazione in tempo reale rende fondamentale ogni passaggio scenico: non esistono tempi morti.

E si ha tutto il tempo per conoscere i personaggi in profondità. Dopo un paio di stagioni (sono un po’ indietro col ruolino di marcia: in America stanno iniziando la sesta) ho la sensazione di conoscere Jack Bauer quasi come il commissario Montalbano.

La tempistica narrativa del serial avvicina TV e letteratura.

Se hai venti puntate a disposizione, il flashback da dieci minuti sul passato del personaggio non è uno spreco. Anzi. E i protagonisti sembrano quelli di un romanzo.

All’attuale configurazione di entertainment superiore si è giunti per una molteplicità di fattori (prevalenza della long-story, pubblico più scaltro, internet e peer 2 peer), ma non sempre il passaggio è stato traumatico. Serie piuttosto datate, tipo E.R. (che, ridendo e scherzando, sta per compiere tredici anni) nate nell’epoca a cavallo tra il single-shot e la long-story sono riuscite ad evolvere e sopravvivere.

La scelta della continuity non era così chiara nelle prime due serie. Il format era nuovo, ma comunque ripetitivo: i personaggi interagivano pochissimo, e l’azione era costituita al novanta per cento da chi entrava in pronto soccorso bisognoso di cure.

Negli anni, la spina dorsale del serial (sangue e morte sotto i ferri) è restata intatta, ma i personaggi si sono evoluti: alcuni se ne sono andati, altri si sono sposati, altri ancora sono morti. E lo show è rimasto vivo in un periodo mortifero (Beverly Hills e Melmose place implosi dopo un pugno di stagioni).

Chiudo citando quello che a mio parere è il vero anello di giunzione tra il passato e il futuro di quelli che una volta si chiamavano telefilm.

Nel 1991 un signore di nome Michael Chiklis interpretava The Commish (Il commissario Scali, da noi). Il format era orribile ma divertente: Scali, commissario ciccione e col riportino unto, con una moglie ricciolina e sensibile, combatteva il crimine tra una ciambella e l’altra, con senso dell’umorismo e moralità pseudo-maccartista da sbirro per bene.

Dieci anni dopo Chiklis si reinventò nei panni di un altro poliziotto: Vic Makey. Niente più quartieri residenziali per lui: benvenuto a Los Angeles. E niente più buoni propositi. Il Mackey di The Shield è muscoloso e rapato a zero (ma comunque appesantito. E a guardarlo non si può non pensare a Scali…).

È marcio fino al midollo: ammazza, ruba, smercia roba. Il tutto, rigorosamente in nome della legge. Avete presente Denzel Washington in Training day? Una signorina, in confronto.

Il coraggio dell’attore e il livello dell’interpretazione non è passato inosservato: nel 2002, Chicklis ha vinto l'Emmy e il Golden Globe per il miglior attore protagonista. E The Shield, a tutt’oggi, dopo sei anni e picco di longevità (avete indovinato: è una long-story), è la meglio serie poliziesca in circolazione.

Altro che Grissom e compagnia briscola…

Hotmail mi odia parte 2: proud to be blacklisted


L'articolo l'ho recuperato in rete ed è pure vecchiotto.
Il che significa che la pratica va avanti da un pezzo.
Date un'occhiata qui, please.
Per coloro ai quali non andasse di leggere, riassumo. Hotmail opera in questo modo: non è lei (e dunque Microsoft) a blacklistare, anzi. Lei paga (immagino profumatamente) un'azienda - tale SenderScore - che fornisce a Microsoft una Lista Bianca di utenti sicuri, che potranno comunicare coi clienti hotmail senza problemi (senza vedere le loro mail respinte brutalmente al mittente).
Se per qualche motivo (tipo aprire un blog?) non si fa più parte della Lista Bianca, tocca pagare SenderScore perchè ti ci rifacciano entrare.
Quanto? L'anno scorso il prezzo di listino era sui 400$, così dice l'articolo.
Dici cotica...

Hotmail mi odia: I'm blacklisted...


L'ho scoperto per caso provando a mandare delle mail di lavoro al mio amico e collega Gabriele di Benedetto (a proposito: fatti un account su libero e scrivimi). Poi mi è capitato con amici e conoscenti vari.
Infine, la conferma: stamane. Ho provato a spedire una mail a Barbara (una lettrice conosciuta qua sul blog) e mi è tornata indietro.
Tutte le persone in questione hanno indirizzi @hotmail.com e la mail di rimbalzo mi informa che non possono recapitare la mia letterina perchè il mio IP è blacklisted.
Sui perchè si potrebbe filosofare una stagione, ma qui il problema è un altro.
Ed è un gran bel problema: metti che mi scrive qualcuno con un indirizzo di "posta calda"? E io non gli posso rispondere manco se piango in greco...
Non ho idea di come fare. Potete darmi una mano?
Ad ogni modo, colgo l'occasione per comunicare a tutti coloro che hanno un indirizzo @hotmail.com che, se non mi faccio sentire, non è perchè non li voglio più bbene...

lunedì 3 settembre 2007

Cambio di provider: possibile buio per qualche tempo


Prima o poi doveva succedere: sto per passare a FASTWEB.
Per un anno mi sono crogiolato con la mia gustosa ADSL da 2 mega offerta da Cheapnet (compagnia costola di Eutelia, molto vantaggiosa e molto affidabile) alla modica cifra di 30 eurucci tutto compreso, ma ora comincio ad aver bisogno di qualcosa di diverso.
E quel qualcosa di diverso, nel panorama italico delle offerte internet, ha un solo nome: Fastweb.
Il contratto con la compagnia del buon Valentino Rossi l'ho sottoscritto venerdì. E oggi ho dato la disdetta con Cheapnet. Vuoi che Cheapnet ci metta una settimana/dieci giorni a staccarmi la spina. Fastweb, a dispetto del nome, non sarà così veloce da venirmi in soccorso senza creare buchi di connessione.
Per cui sarò senza internet per un periodo oscillante tra i sette e i quattordici giorni (forse di più, se Cheapnet è scatenata e mi taglia i fili in fretta).
Da quando? Bella domanda...
Potrebbe essere domani come tra dieci giorni.
Ecco perchè ho messo un simpatico avviso sull'headline del blog.
Scriverò una mail comunicando un telefono al quale rintracciarmi a tutte le persone con cui lavoro a distanza in questo periodo.
A tutti gli altri chiedo scusa sin d'ora per la forzosa assenza che subirà questo blog.
Con la promessa di rispondere a tutte le mail che si saranno accumulate nel frattempo a tempo di record.
Da domani, ogni giorno è buono. Per cui inizio a salutarvi.
Poi magari faccio tempo a postare ancora diecimila articoli prima del blackout, ma non si sa mai...
Abbiate pazienza.

sabato 1 settembre 2007

Se non ci fossero gli amici: due (bei) libri e uno che non ho ancora letto

Nel paese dei favori, delle mani che si lavano a vicenda, del malcostume della spintarella e della raccomandazione, se uno si azzarda a parlare bene di un amico, finisce nei guai.

Fa la figura del maneggione nepotista, del complottardo massonico assetato di carboneria.

Questo per dire che vi vorrei parlare di tre libri, ma siccome sono di amici, ho qualche remora a farlo.

I libri mi sono piaciuti davvero. Fin qui…

E gli autori, a parziale scanso di equivoci, li conosco, è vero. Si è parlato molto e diverse volte (magari con una birra davanti), ma non si è mai mangiato insieme. Per esempio.

Dunque non è come se facessi i complimenti a mio fratello o al mio migliore amico.

È una cosa diversa.

Vabbuò, fate come vi pare, datemi del raccomandatore di persone care (che, per inciso, non hanno bisogno di nessuna raccomandazione: vendono cento volte quello che vendo io), ma io di ‘sti tre libri vi parlo lo stesso.

Si parte con Nelle mani giuste (d’ora in avanti NMG), capolavoro del mio maestro Giancarlo De Cataldo. Dico capolavoro e non “nuovo romanzo” perché tra l’epopea di Romanzo criminale e questo libro c’è un solco profondo che arriva fino al cuore del Paese. NMG è il libro più ellroyano di Giancarlo. Ancora prima di leggerlo ne parlai con Pietro Cheli, di Diario, e me lo sconsigliò. Ne lessi male, i primi giorni che era in giro. Voci discordanti, insoddisfazione, “non è all’altezza di Romanzo criminale”.

Partii prevenuto. Dopo venti pagine mi accorsi che quelle che avevo letto sui giornali erano un sacco di balle.

Giancarlo usa la lingua come nessun altro. I suoi personaggi sono veri, pulsanti. Dicono e fanno cose da film vivendo immersi in un posto terribile. Che di fasullo ha poco o nulla.

E poi le donne... Le donne di De Cataldo (magari sfortunatelle e un poco maltrattate) sono strepitose. Animali feroci, ritratti di pancia. Che fanno sognare e danno i brividi.

Se pensi poi al Paese che Giancarlo descrive, un Paese che tutti ricordano fin troppo bene e che di Bello non ha proprio niente, capisci che questo signore sa fare il suo mestiere.

Sul libro di Giancarlo vi consiglio di leggere la recensione di JP Rossano. La trovate qui: molte delle cose che dice JP le sottoscrivo in pieno.

JP è il secondo amico di cui vorrei parlare; il secondo compagnuccio, se preferite.

E di rigore, l’imbarazzo dovrebbe essere ancora maggiore perché del suo libro ho letto solo qualche riga.

Eppure…

Il libro si chiama L’ultima stoccata ed è edito da Il Molo.

È una storiaccia nera piena di cattivi, cruda all’inverosimile, con un detective privato che ha a che fare col più grande dei difetti nostrani (dopo il nepotismo, beninteso): la brama di potere.

Storia che garba facile al palato del sottoscritto, ma non è questo il punto.

Il punto è che JP scrive bene. Ci siamo conosciuti in rete e spesso scambiamo pareri e sagaci battute in tema di noir. Abbiamo in comune la passione della penna e del nero. E JP sa vedere (e raccontare) angoli che nessuno indaga, pieghe del nero inusuali, forti e difficili.

JP sa quello che fa con le dita sulla tastiera.

Per cui, se vi va, date un’occhiata al suo lavoro. E se invece volete risparmiare 11 eurucci, fate almeno un salto sul suo sito.

L’ultimo amico con cui voglio chiudere è Enrico Brizzi. E qui potete dirmi poco o nulla, davvero.

Io ed Enrico ci conosciamo per colpa di un amico comune: il regista Matteo Bellizzi (regista del booktrailer di Confine di Stato). E ci capita di tanto in tanto (l’ultima volta a Torino a maggio), di trovarci nella stessa stanza (generalmente con Matteo) a fumare Marlboro e raccontare aneddoti improbabili (e, rigorosamente, veri): tipo quella volta che Mr. Jack Frusciante alloggiò a Torino in un famoso hotel e, appena arrivato da Bologna, a tardissima notte, nella hall si beccò Bono Vox e Gorbaciov abbracciati come Franco e Ciccio…

Quindi, amici amici proprio no.

Conoscenti, forse. Ecco.

Mani avanti perché, anche in questo caso, ho adorato il suo ultimo romanzo.

E mica siamo partiti col piede giusto. A dire il vero, di suo, non avevo mai più letto nulla dai tempi del Jack Frusciante. Mica per sfiducia: Jack l’ho adorato, da ragazzo. Solo per fatalità. Enrico non scrive esattamente le cose che scrivo io, per cui…

Però Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro l’ho comprato. Vuoi perché eravamo a Torino e lo stava presentando, vuoi perché pareva molto ma molto brutto sedersi con lui e mille altri amici che avevano la propria copia sotto il braccio…

Ed è rimasto nello scaffale fino all’ultima tranche di vacanza.

Peccato. Perché è un libro da leggere all’inizio della primavera, quando i venti caldi spaccano l’inverno, e ti viene voglia di partire. Il pellegrino è la storia di un viaggio. Un viaggio che Enrico ha fatto veramente, l’estate scorsa. Un viaggio da Canterbury a Roma, lungo la Via Francigena.

A piedi.

Sì, signori, non fate quelle facce.

Non-so-quanti-cacchio-di-mila chilometri a piedi.

Un viaggio lungo una stagione. Un viaggio fatto l’estate dei Mondiali attraverso quattro nazioni.

Un viaggio che fa tremare i polsi.

Stupendi personaggi (su tutti Bern, il pellegrino tedesco tatuato a sfondo religioso dalla vita in su), una scrittura che fa sognare, non si discute.

Ma questo è soprattutto un libro che mette voglia di parte. Perché i luoghi sono reali, e sai che Enrico ci è passato davvero.

E quando lo vedi che si aspira una Marlboro dopo l’altra mentre ti spiega che sapore ha l’acqua sul Gran San Bernardo, pensi che, anche se pesi un quintale e il tragitto più lungo che fai è da casa al lavoro (cinquecento metri), potrebbe esserci anche per te della strada da fare.

Questo è quanto, signori.

Leggete, se gradite.

E fatemi sapere.

Io non vi do i soldi in dietro come Serino, ma mal che vada avete già comprato tre ragali di Natale.