Questo è il tipo di libro di fronte al quale o si perde la testa o si resta indifferenti.
Niente mezze misure.
Per quanto riguarda l'indifferenza, niente di male: se non ve ne frega niente del rap, del breakin', del turntablism o del writing, sono convinto che la vostra vita tiri innanzi senza problemi.
Probabilmente pensate che Neffa sia un cantante pop, e che sia normale che faccia duetti zuccherosi con J-Ax (altro cantante pop appena più truce), urlando a squarciagola: "NELLE PALESTRE BALLERANNO LE SIGNORE!!!!"
E magari vi chiedete pure che fine abbia fatto quel ragazzo un po' abbondante che cantava SUPERCAFONE (Te la ricordi? Eravamo ad Alassio quell'estate! Quanto l'abbiam ballata!)
Forse pensate pure che Caparezza sia intelligente ma troppo... troppo di nicchia.
E Mikimix, ammettetelo, non avete proprio idea di chi cazzo sia.
Comunque, no. Non c'è pericolo: Fabri Fibra e Club Dogo li ascolto se proprio proprio passano in radio, ma se mi capita il video su Deejay TV cambio canale.
Ecco, se vi siete riconosciuti nel profilo, il libro di Damir Ivic non fa per voi.
Ma se per caso vi è capitato di trascorrere i pomeriggi con i bassi a palla nelle orecchie e la voce di Don Kaos che vi azzanna lo stomaco, o le serate a far girare un microfono, a sputarci dentro rime asciutte, a inseguire a tutti i costi quella parolina con la S: STILE; se le prime braghe larghe che vi siete comperati erano della INTRO, se in macchina avete ancora le cassette da 100 minuti con Stop al panico in loop da un lato e dall'altro Slega la lega e Fotti il buio; se pensate che SXM sia il miglior album hip hop italiano di sempre (e avete ragione) e che la trasformazione di Esa e Polare in Gente Guasta sia uno dei migliori finali di partita di sempre... be', allora questo libro fa proprio al caso vostro.
Damir Ivic non è un giornalista musicale fighetto che ha fiutato l'affare e s'è messo a scrivere con toni paraculi la storia recente della doppia H. Damir Ivic è un professionista serio. Un comunicatore scevro da pregiudizi e, soprattutto, uno della Vecchia Scuola.
Ai tempi di maggior fotta del movimento scriveva per Aelle (Alleanza Latina, la vera bibbia del B-Boy made in Italy dal '91 al 2000), ha macinato chilometri su e giù per lo stivale, di jam in jam, per ficcare un registratore davanti a chi cantava, suonava, brekkava o dipingeva. Si è consumato i polpastrelli sui tasti per dar voce a tutti, ma proprio tutti i rappresentanti della scena.
Damir Ivic c'era. E, quando parla, parla con cognizione di causa.
La storia che racconta è la storia di una cultura che viene da lontano. Che viaggia leggera e invisibile fin dalla metà anni Ottanta attraverso documentari che passano a tarda notte su reti private e video che che girano una volta ogni morte di papa (sempre a notte fonda) su canali qualunque, in un mondo senza internet o MTV, aggrappato alle deboli spallucce della neonata Videomusic.
Rime in inglese dure a capirsi che suonano una meraviglia, dischi attesi settimane al negozio, viaggi a New York, favole di emancipazione, tute a strisce e scarpe da ginnastica, partenze, ritorni.
Il Muretto di Milano, il Regio di Torino, Roma, Napoli, Bologna.
Finchè qualcosa non esplode. Finchè non arrivano i Novanta. Finchè in Italia non deflagra il fenomeno posse, che farà la fortuna del movimento e nel frattempo lo pugnalerà al cuore.
Isola Posse All Stars, Fuckin' Camels 'n effect, Lion Horse Posse, 99 Posse.
E poi è uno tsunami. L'onda si alza, inesorabile, travolge tutto e tutto cambia.
Le comparsate ad Avanzi, la colonna sonora di Sud di Salvatores. L'hip hop s'infila dovunque, si macchia di raggae, s'infibula con la lotta dei centri sociali, viene sfregiato dall'imbarazzante stalinismo di alcune situazioni al limite.
Muore e rinasce, si consuma peggio della fenice per poi risorgere dalle proprie ceneri. Le crew si mischiano, il beat si fa crudo ed esasperato. Qualcuno cambia strada, qualcun altro dice di no al grano facile e corre a rintanarsi nel buio dell'underground di sempre.
Ma, a dispetto degli scazzi, dei tradimenti, delle promesse non mantenute, dei balzi in avanti e di quelli da gambero sbronzo, la cultura sopravvive. Attraversa un altro decennio, sfida il nuovo secolo. Arriva, un'altra volta, alle orecchie di chi non sa neanche che significhi "hip hop", ma si è appena iscritto(a) a un corso di danza (tanto fico!) che porta quel nome come un distintivo sul petto.
E in classifica, di quando in quando ti ritrovi il nome di Fabri Fibra, quello dei Club Dogo, del solito sfavillante Caparezza. Senza avere idea che quella gente, in un modo o nell'altro, con la Vecchia Scuola ci è andata a braccetto per un sacco di anni. Non ha mai smesso di parlarci, anche se adesso urla prepotente nelle orecchie dei pischelli.
E' la storia di un viaggio, quella che racconta Damir Ivic nel suo stupendo, fondamentale (è il caso di dirlo) STORIA RAGIONATA DELL'HIP HOP ITALIANO. Una storia che a quelli come me, che hanno appena gli anni giusti per esserci stati quanto tutto cominciava (all'epoca di Stop al panico avevo proprio l'età dei fan più giovani di Fibra, oggi), mette addosso un po' di nostalgia, un sacco d'emozione e una voglia matta di andare a pescare tra i vecchi cd, o magari di fare un mega ordine in rete di tutta la roba che all'epoca ha sempre e solo ascoltato su cassettine strausate perchè i soldi non bastavano per le bombole. Figuriamoci per le adidas o i cd (manco c'avevo un lettore, all'epoca. Il primo l'ho preso coi punti della Coop nel '96...)
Questo è il libro che mancava.
Di quelli che se ne esce un paio in un anno, è stata un'annata memorabile.
Uno di quei libri così perfetti che, porca troia, avrei voluto scriverlo io.
martedì 8 marzo 2011
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