DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

martedì 30 settembre 2008

UWS trailer 2

Che ve lo dico a fare... spacca di brutto!

venerdì 26 settembre 2008

Wu Ming 1 + New Italian Epic live in Milan: Sarassone was there (e ci mancherebbe pure...)

Periodo di trasfertismo duro e cruento, cari lettori: il vostro scrittore over 100 preferito finirà per ridursi uno straccio con tutti 'sti chilometri e tutta 'sta mondanità.
Martedì cenaccia di lavoro, ieri sera il big show del maestro bolognese e domani via che si parte per Treviso alla volta di Fumetti in TV, manifestazione di cui io e il prode Rudoni saremo ospiti per tutto il week end.
Ma veniamo a noi, e focalizziamo l'attenzione sulla splendida serata di ieri per il consueto resoconto cultural-mangereccio.
All'Informagiovani di via Dogana 2 (a due passi dal Duomo) WM1 a.k.a Roberto Bui presenta la versione 2.0 del memorandum sul New Italian Epic.
Appuntamento alle 18.30.
Alle 16.30 il sottoscritto è ancora in quel di Novara, alle prese con pargoli vocianti e sfiancati che chiedono a gran voce il magico trillo della campanella (a quanto ne so, gli alunni delle elementari sono gli unici veri fan della Gelmini e delle sue riforme contro il tempo pieno: passata l'ora di pranzo, sono tutti stremati dall'abbioco post-prandiale ed è praticamente impossibile svolgere qualunque attività didattica).
Un secondo dopo lo squillo rituale mi precipito alla vettura, mi scapicollo verso la stazione, agguanto con piratesca ferocia un parcheggio (lontanissimo, peraltro), corro al binario 4 e mi tuffo sul treno.
Nel frattempo, col fiatone e addosso una pletora di vestiti troppo pesanti per il clima torrido, faccio un colpo di telefono all'amico Luca Ottolenghi (giornalista di Rolling Stone, fido compagno delle trasferte milanesi) per ragguagliarlo sull'ora del mio arrivo nella capitale meneghina.
Luca ha l'aria mesta, trentotto di febbre e un principio di mononucleosi: marca visita, come si dice.
Non ci sarà, ma si raccomanda di registrare per filo e per segno ogni dettaglio, e di raccontargli tutto al più presto.
"Sarà fatto", prometto.
Sul treno ci sono quaranta gradi, perchè Trenitalia ha la splendida idea di accendere il riscaldamento su tutte le carrozze. Il colpo d'occhio sulla folla accalcata nel vagone è strabiliate: canottiere, magliette a mezza manica, qualcuno - me lo dice l'espressione del viso, affranta - se potesse si metterbbe a torso nudo.
Sembra di stare a Ostia.
Io, che di mio son freddoloso, rimango in camicia e leggo avidamente L'ESTATE DEL CANE NERO di Francesco Carofiglio. Libro molto bello ma permeato da una tristezza infinita. Consigliatissimo, ma con un'avvertenza: leggetelo solo se siete di cuon umore.
Il convoglio attracca a Centrale, aiuto una signora calabrese a scaricare i bagagli e mi fiondo nella metro.
Quattro fermate e sono sul posto.
Sono arrivato prestino, ma vedo già qualche amico.
Giuseppe Genna, elegantissimo (as usual) e malaticcio. Prende antibiotici da qualche giorno, ma ci tiene a dirmi che non è più contagioso.
Di mio lo bacerei (lo bacio sempre volentieri) ma siccome domani devo partire e proprio non posso ammalarmi, gli stringo la mano.
Si chiacchiera allegramente di libri e serie TV, finché al gruppo non si aggiunge Antonio Talia, stella nascente di UWS ed economista di razza.
"Antò, fa caldo... Beviamoci una birra!"
Antonio non rifiuta, anzi paga lui (gran signore).
Birretta in mezzo alla calca, m'informo se Roberto sia già arrivato ma Giuseppe dice di no.
Cioè, è già a Milano, ma ancora in stazione. Alessandro (Bertante) è andato a prenderlo.
Si vocifera che pure Biondillo sia in arrivo ma poi non verrà. Peccato.
Finalmente il Wu Ming si rivela e la folla lo acclama.
Folla, fatevelo dire, delle grandi occasioni. Informagiovani stracolmo in ogni ordine di capienza.
Si comincia, e devo dire che ascoltare Roberto è un vero piacere.
Racconta al pubblico il contenuto del memorandum e i corto circuiti che stanno alla base della sua concezione. Quando finisce di parlare, fioccano interventi sapidi.
Apre le danze Valter Binaghi (credo. Dico credo perchè io ero accomodato nel loggione, non ho visto in faccia chi ha fatto al prima domanda, ma la voce mi sembrava la sua), seguono Bertante, Altieri e parecchi altri.
Si chiacchiera a lungo, si dicono cose importanti.
Quando è tutto finito avvicino Alessandro e gli pongo una domanda teorica fondamentale: "Se magna?"
Ale annuisce, e dopo una sigarettina, il gruppone si muove verso un bicchiere e del cibo.
Gli 01.org (Eva e Franco Mattes) si manifestano all'improvviso.
Baci, abbracci, chiacchiere.
Prima dicono che non vengono a bere con noi, e nemmeno a cena. Perchè son stanchi e hanno voglia di andare a casa.
In realtà mentono, perchè dieci minuti dopo averli salutati ci richiamano e ci raggiungono.
Ah! Gli artisti...
In piazza Duomo, in cammino verso l'aperitivo, discuto di scuola con Igino Domanin. Intanto penso che sia davvero un genio e che mi spiace vederlo una volta ogni morte di papa.
Ci si accomoda nel gustoso dehor e si ordinano Negroni a mazzi (Roberto no perchè non beve). Siamo la metà di mille, ma ancora più numeroso è il gruppo di Scout (erano Scout?) che in due minuti imballa il locale e comincia a intonare canzoni popolari di un'altra epoca, tipo Parlami d'amore Mariù.
Giuro.
Io ingollo la mia bevanda saporita e chicchiero con Roberto del futuro delle produzioni wuminghiane. Mi dice un sacco di cose interessanti che però - mannaggia - non posso rivelare. Dunque ciccia, cari lettori. Sappiate solo che ci sarà parecchia roba in ballo per l'anno che viene , l'officina bolognese sta lavorando alacremente per voi.
Giuseppe e Valter Binaghi conversano profondamente di teologia.
Franco degli 01.org è rapito dalle melodie scuotistiche.
Roberto non mangia la pasta al ragù perchè è vegetariano e dunque ha una fame della Madonna.
Antonio Scurati (impeccabile come sempre) gli legge negli occhi il buco allo stomaco, si alza e invita il gruppone a schiodarsi.
A quel punto butto un occhio all'orologio e mi rendo conto che son le dieci. Il che vuol dire che non ce la farò mai a prendere il treno delle dieci e un quarto e essere a casa per mezzanotte.
Mi toccherà quello della mezza, e un numero limitatissimo di ore di sonno.
Ma chissenefrega, la serata è spaziale.
Mentre ci alziamo, Valter Binaghi racconta l'episodio dei polli di Re Nudo al Parco Lambro.
Lui c'era. E ne ha scritto, credo.
Io gli dico che gliel'ho appena fregato per metterlo in SETTANTA.
Lui sorride, poi mi rifila un cazzottone sulla spalla.
Poi ride ancora. Mi ha già perdonato.
Fiuuu... meno male. Un altra botta del genere mi avrebbe compromesso la clavicola.
Altri due passi e finalmente a cena, in un posto lì vicino dove servono un risotto che levati.
Io, Roberto e gli 01.org non possiamo resitere alla specialità della casa, Bertante è in cerca di una milanese, ma quando sbircia il menu s'indigna.
Qui la fanno coi pomodorini e la rucola. "E i pomodorini e la rucola sulla milanese sono da socialisti".
Si ride di gusto, la ordina con patate.
Durante la cena sono parecchi i discorsi pregnanti che vengono fuori. Discussioni letterarie di alto livello, ma chissà perchè non ne ricordo nemmeno uno...
Nella memoria restano fissi argomenti minori, che esulano dal paludamento del narratore o dalla mimesi linguistica; uno su tutti: i film softcore degli anni Settanta.
C'è chi si ricorda i cinema a luci rosse e chi le cose spinte le guardava su Telereporter, la sera alle undici.
Poi tocca a tutti fare un nome di donna, quello dell'attrice che ha in assoluto sconvolto di più gli ormoni di una generazione.
Vince la Fenech, una spanna sopra le concorrenti.
Pausa sigaretta, la cena volge al termine.
Nel freddo di Via Ragazzi del '99 scopro una verità scottante.
Quando esco sono già tutti schierati con la paglia accesa e com'è come non è viene fuori che, dopo ognuna di queste serate, tutti i partecipanti hanno l'abitudine di venire a leggersi il resoconto su queste pagine.
Mamma mia, penso. E che diranno?
Alla fine, la microcronaca piace a tutti, piace sempre.
Addirittura Alessandro insiste perchè metta nel pezzo la questione dei pomodorini socialisti.
Prometto.
Ogni promessa è debito.
Prima di farmi inghiottire dalla metro e dal Milano-Torino in perfetto orario, chiedo pegno a WM1: mi sono portato dietro NEW THING apposta.
Lui abbranca il pennarellone (residuato bellico della scuola dell'infanzia) e verga una sentenza esemplare:

A SIMONE, REPORTER DELLA MOVIDA LETTERARIA MENGHINA.

Se lo dice il maestro...
Io ringrazio, bacio abbraccio e due ore dopo sono sotto le coperte.
Nemmeno sei ore dopo, fresco come una rosa, già al lavoro.
Ma ne è stravalsa la pena.

giovedì 25 settembre 2008

Video a manetta: libri in uscita e discussioni passate

Cari lettori, un paio di video per rifarvi gli occhi.
Il primo è il booktrailer di POLAROID, una raccolta di racconti cazzuti quanto basta a firma Gianluca Mercadante. Di prossima uscita per LAS VEGAS EDIZIONI.

Il secondo è la maxiconferenza a cui ho partecipato recentemente ad Arezzo (Copyleft Festival) insieme a Bruno Fiorini (KAI ZEN), Serge Quadruppani e Antonella Beccaria.
Prima la presentazione del nuovo libro di Antonella, poi quattro chiacchiere tra amici su letteratura e sociale.






mercoledì 24 settembre 2008

venerdì 19 settembre 2008

Io ve lo dico....





...ma non mettetevi strane idee in testa. Settanta è finito.
Oggi ho posto la fatidica parola FINE al manoscritto del mio nuovo romanzo.
Il che NON significa che il romanzo sia veramente finito, nè che lo vedrete in libreria in tempi brevi.
C'è ancora un sacco di lavoro da fare. Misure da prendere, cose da aggiungere e da togliere, la lingua da rivedere e mille altre cosette.
Ora inizia il periodo più duro, quello del perfezionamento della creatura, della raffinazione del prodotto.
Davanti ci sono un sacco di mesi, prima di poter mettere finalmente un punto.
Prima di quel magico periodo che sta tra la consegna delle ultime bozze e il momento in cui il nuovo nato arriverà sugli scaffali delle librerie.
Come diceva quel genio di Celentano, il meno è fatto.
Ad ogni modo, volevo che lo sapeste.
Non chiedetemi quando uscirà, perchè non lo so davvero.
Dipende.
Dipende da un sacco di cose.
Comunque, la fase dove si butta il sangue è chiusa.
In allegato, quattro foto che ritraggono la mia postazione di lavoro, in condizioni da terremotato curdo dopo un anno e mezzo di impegno metodico e frenetico.
I fogli di Google Calendar sono pieni di rigacce nere.
A ogni riga corrisponde un paragrafo, più o meno.
Ogni giorno, per diciotto mesi, ho scritto un paragrafo (a volte due, a volte nessuno, a dire il vero). Quando il paragrafo era pronto, tracciavo una rigaccia sopra la voce che lo contraddistingueva nella mia agenda.
Il tempo delle rigacce è finito.
Se Dio vuole.
Ci tenevo foste i primi a saperlo.

domenica 14 settembre 2008

Il Sarassone (e il prode Maestro Rudoni) al Copyleft Festival di Arezzo: microcronaca di una due giorni sotto l'acqua

Ieri l'altro, io e il mio socio Rudoni siamo stati ospiti del Copyleft Festival di Arezzo. Manifestazione straordinaria, maltrattata dal diluvio universale che in questi giorni sta schiaffeggiando mezza Italia.
Trasferta faticosa ma molto piacevole.
Partenza alle otto di venerdì da quel di Novara, lotta greco romana contro l'acquazzone e l'asfalto non drenante fino ad Arezzo, con rapida sosta in Autogrill per Camogli d'ordinanza.
Arriviamo in centro e scopriamo che i parcheggi, nella ridente cittadina toscana, soffrono di una curiosa sindrome da deficienza affettiva. Al contrario degli altri posti macchina dello stivale, quelli aretini non gradiscono la consueta avvilente pratica del "paga quello che c'è da pagare, molla l'auto e vai pure a farti i fatti tuoi". Bisognosi d'attenzione, richiedono il rinnovo del ticket ogni due ore.
Vai tu a sapere perchè.
Dunque infiliamo le monetine, otteniamo lo scontrino e e facciamo ciao ciao agli spazi blu, con la tacita promessa di ritornare presto.
In piazza fa un caldo che sembra di essere in Africa, ma è solo uno specchietto per le allodole: non durerà.
Incontriamo Marco dell'organizzazione, ci accordiamo sull'ora della tavola rotonda e andiamo a fare due passi. Arezzo è bella, piena di turisti e di gente simpatica.
Dopo una birretta e un caffè, mi chiama Bruno dei KAI ZEN e mi dice di essere appena arrivato da Bologna.
Presenterà il libro UNO BIANCA TRAME NERE di Antonella Beccaria.
Anche Antonella è già sul posto: sono scesi assieme, in treno, dal capoluogo emiliano.
Bruno e Antonella sono fantastici: spassosi e molto preparati. Si chiacchiera finchè non è ora di andare in scena.
Mentre si chiacchiera, il tempo peggiora: addio presentazioni all'aperto. Il nubrifragio ci spinge all'interno della Camera di Commercio (credo fosse la Camera di Commercio, ma non ne sono del tutto sicuro...) e si aprono le danze.
Prima Marcello Baraghini, il patron di STAMPA ALTERNATIVA, presenta questo libro insieme al suo autore.
Il libro è molto interessante e Marcello è un vulcano. Lo ascolteresti per ore.
Poi è il momento dei fumettari in copyleft, ma confesso di essermi distratto un attimo, tra sigaretta, telefonate e ciance. Mea culpa.
Intanto arriva anche Serge Quadruppani, che deve partecipare insieme a me e Antonella alla tavola rotonda sul noir e la critica sociale.
Rientro e tocca a noi. Siccome s'è fatta una certa, decidiamo di accorpare la tavola rotonda e la presentazione del libro di Antonella in un unico evento.
Ne viene fuori una discussione da paura: si parla della Bologna dei Novanta e delle stragi ottantine, si scava sotto l'anima nera del paese, ci si scambia pareri sulle tecniche narrative.
Uno rimpianto: il pubblico. In platea poca gente (pochi ma molto buoni), per colpa del temporale infinito.
Si termina che è ora di cena e si trotta a passo spedito verso il circolo Arci Aurora, dove famelici e felici ci avventiamo su un'ottima pasta alla Checca, crostini assortiti, pizza fatta in casa e torta al cioccolato.
Vino e birra d'accompagnamento.
Si sta gran bene.
Verso le dieci, Antonella e Bruno scappano verso Bologna, Sege fila in albergo, io e Daniele pattugliamo il centro deserto alla ricerca di un whisky. Alla fine ce la facciamo, ma siamo zuppi, mannaggia.
Nessuno dei due è stato così lungimirante da portarsi un ombrello.
Verso mezzanotte l'organizzazione ci cerca al cellulare: "è ora della nanna - dicono - Vi si porta in foresteria".
Noi, mesti e da strizzare, la smettiamo di gozzovigliare e ci facciamo accompagnare.
Doccia, lungo sonno, lauta colazione al Bar degli Svizzeri (in realtà gestito da simpatici ragazzi rumeni) e di nuovo in centro, perchè Daniele deve disegnare la vetrina della libreria EDISON di piazza Risorgimento.
Mi piacerebbe postarvi una foto del disegno ma, a dirla tutta, non solo non ho avuto occasione di immortalarlo: manco l'ho visto.
Sempre per colpa del dannato biglietto del parcheggio, che vuol esser cambiato molto più sovente che il pannolino d'un neonato.
Morale: non solo faccio dei chilometri per rintracciare l'auto e sostituire l'odioso pezzo di carta, ma mi becco pure tutta la pioggia della Toscana.
Una volta arrivato in auto, mi cambio perchè sono marcio e alzo bandiera bianca (fuori dal finestrino, l'uragano).
Daniele mi raggiunge non appena spiove e si parte.
Al dinamico duo si aggiunge un compagno di viaggio: Francesco, operatore di ARCOIRIS (che ha ripreso tutto il festival), viaggiatore, persona meravigliosa.
Tra un pieno di benzina, centinaia di chilometri e qualche sosta panino, Francesco ci racconta dei suoi cinque mesi in India, del giro in moto sulla vetta più alta del mondo, della barba che si è tagliato da poco.
Noi, pasciuti stanziali di risaia, rosichiamo e stiamo a sentire.
Francesco lo lasciamo a Modena: ci si promette di risentirci presto.
Ancora un due orette e mezza ed è finalmente casa.
Distrutti ma soddisfatti.
Pizza a cena, nanna presto.
Oggi riposo e scrittura.
Domani ricomincia la scuola: occorrono tutte le energie possibili.

mercoledì 10 settembre 2008

Face Off - Giuseppe Genna vs Simone Sarasso

(Quasi) ristabilito dal massacro gastrointenstinale, cerco di rimettermi in sesto con pubblicazioni e mail arretrate. Mentre una montagna di corrispondenzainevasa infesta le mie cartelle di Thunderbird mi giunge notizia che è finalmente disponibile (nelle librerie Feltrinelli, su www.milanonera.com o semplicemente cliccando il banner in fondo a destra) il terzo numero del free press MilanoNera.
Su quel numero il vostro scrittore over 100 preferito ha intervistato uno dei suoi maestri: il signore del noir Giuseppe Genna.
Sul giornale cartaceo l'intervista è stata (giustamente) mozzata. In realtà quelle 4000 battute che potete leggere a p.11 non sono che il cuore di una ben più lunga conversazione, che ho il piacere di riproporvi per intero.
Buona lettura.

FACE OFF
Giuseppe Genna e Simone Sarasso


Doveva essere un’intervista. È diventato un faccia a faccia. Mi era stato chiesto d’intervistare l’autore di Hitler, il best seller recentemente uscito per Mondadori. Io sono andato a caccia dell’uomo che mi ha insegnato a scrivere.
Lo dico da una vita: senza i libri di Giuseppe Genna, non avrei mai scritto i miei.
Senza la quadrilogia di Lopez (Catrame, Nel nome di Ishmael, Non toccare la pelle del drago, Grande madre rossa) non mi sarei mai interessato al noir, non avrei mai letto Ellroy, non avrei scoperto un mondo.
Vediamo, dunque, di partire proprio da lì. Da dove tutto è nato.

SS: Giuseppe, da tempo dici di aver abbandonato il noir e il thriller. I tuoi libri sono altro, adesso. La gabbia narrativa del genere è esplosa, è esorbitata, si è espansa. Da L’anno Luce a Hitler c’è un’abisso.
La distanza stilistico-concettuale delle tue ultime creature dalle prime è siderale.
Ti seguo da anni, da anni ti studio e so come è avvenuta quest’ultima evoluzione. Quello che non so, che mi chiedo da sempre, è come tu abbia avuto l’intuizione per scrivere i tuoi primi quattro libri.
Non esisteva niente del genere in Italia, prima. Nessuno faceva controinformazione a quel modo. C’erano in giro parecchi protagonisti “sporchi” e politicamente scorretti, ma nessuno aveva un narratore così cattivo.
Come è nata quella magia?

GG: Detto che per me non è una magia, e che considero la quadrilogia di Lopez sotto lo sguardo di certe poetiche che mi interessano ora, va detto che ad altezza della scrittura di Catrame, almeno in Italia, la tradizione del giallo e del thriller e del noir era considerata e praticata contraddittoriamente. Esisteva poi una situazione che era quella dell’attualità sociale e politica, con una rimozione pressoché assoluta della continuità storica tra certi eventi e svolte di un Paese addormentato. Questo, da un lato.
Dall’altro lato, c’era per me un’evidenza della presa di piede di un protocollo che concerneva un cattivo immaginario, a mio parere automaticamente derivante dalla sottocultura a cui l’Italia si era esposta – e intendo il protocollo della paranoia, estetizzato con suspence sempre più frequentemente utilizzata nella fiction cinematografica e televisiva. Qualcosa che in America era già decaduto e che preludeva a una rinascita del romanzo storico. Dal punto di vista del confronto con la poetica, c’era un problema che per me era devastante, e cioè l’idea critica di “contaminazione” tra i generi, un residuo postmoderno scaduto come si dice che un alimento è scaduto, e i risultati che eiettava spettacolarmente (penso alla stagione dei Cannibali) erano non soltanto scaduti a priori, ma anche letterariamente scadenti (a parte Woobinda di Aldo Nove, che però è poesia, non narrativa). Si trattava di un conato di reviviscenza della Neoavanguardia storica, che a mio parere ha un torto gravissimo nella dialettica che ha imposto in questa sua esasperante sopravvivenza: l’annullamento della narrazione popolare.
Inoltre c’era il problema che sollevi tu: la necessità che la controinformazione non paranoide, ma basata su studi documentali, si trasformasse in materia di narrazione storica, e venisse metabolizzata dalla letteratura.
In tutto ciò, lo sfondo critico, che ai tempi era pesante e adesso, nel giro di un decennio, si è ridotto all’altezza che merita. L’Italia soffre di nanismo critico, di un’attenzione viscerale e ciecamente specialistica alla propria tradizione, intesa soprattutto come lingua di superficie e in particolare come sguardo sullo stile, di derivazione continiana. Perfino in poesia, l’erede di questo approccio stilistico, cioè Mengaldo, nella sua antologia poetica del Novecento italiano esclude Cesare Pavese, e si capisce perché – è il poeta che utilizza un ritmo che cerca di sfondare il petrarchismo e apre alla narrazione, diventando popolare (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è il libro di poesia italiana più acquistato e letto degli ultimi trent’anni di editoria di settore e Pavese è uno dei pochi italiani moderni tradotti ovunque all’estero). Questo, il quadro.
Per quanto concerne la scrittura del mio primo noir, si è trattato di una casualità. Mio padre amava svisceratamente Maigret, aveva letto Simenon (anche i romanzi non di genere) più volte, e io volevo fargli un regalo: un piccolo giallo senza pretese che aggiornasse la figura di Maigret e la collocasse nella zona in cui sono cresciuto e mio padre viveva a quei tempi. Avendo studiato i 19 (19...) volumi degli Atti della Commissione Parlamentare sulla P2, privi di indice analitico e sigillati dall’”eroica” Tina Anselmi con una relazione di 36 (36...) pagine, disponevo di una visione circa il ruolo non solo di Gelli, ma delle radici che Gelli ha incarnato nel Dopoguerra italiano. Si tratta di una scansione della nostra storia che coincide con quella della “sovranità limitata” fornita dal giudice Salvini nella sua accusa sui fatti di Piazza Fontana. E’ una visione che differisce dallo scontro semplicistico tra estrema destra, estrema sinistra e apparati dello Stato, con influenza della Cia e di altri organismi. Viene alla luce il ruolo di certe tecnocrazie, embricate in Italia, la nazione chiave per comprendere la Guerra Fredda. A questo si aggiunga l’inesausta aggressione inglese al Vaticano e, dunque, all’Italia stessa, a partire dall’immediato Dopoguerra, quando il nostro Paese non disponeva di servizi segreti propri, sostituiti da quelli inglesi (De Lutiis, eccelso storico della materia, è molto preciso su questo punto). In Catrame non esiste davvero un’influenza letteraria esterna. Ellroy mi ha piegato polso e immaginario successivamente, quando c’è stato da affrontare il caso Mattei, inserendolo in una continuità che conduce al nostro presente. In quegli anni cresceva un fronte narrativo anti-postmoderno, di cui i frutti sono assai visibili oggi. Faccio il nome di Evangelisti e Wu Ming su tutti, perché è grazie a loro che l’idea stessa dei sottogeneri (il genere è il romanzo: non esistono romanzi di genere) è saltata, verso la conquista di un’affabulazione allegorica, che reinstalla l’idea di un’etica interna alla scrittura. Il bilancio, che è però anche una profezia, è fatto nel saggio di Wu Ming 1 sul New Italian Epic.

SS: Se nella concezione della mia trilogia ho immaginato uno scenario occulto per il paese degli ultimi cinquant’anni, lo devo a te. Alcune delle intuizioni fondamentali dei miei romanzi sono rielaborazioni di suggestioni che tu hai disseminato nei tuoi.
Una su tutte, su cui si basa l’architettura intera della mia opera: la presenza sul suolo italico di un’organizzazione (militare e di intelligence) col compito di intervenire (anche militarmente) in caso di pericolo rosso (il che significa anche in caso di vittoria democratica delle sinistre).
La mia Ultor è in un certo senso la trasfigurazione della tua Ishmael, ed entrambe sono belle copie di Gladio.
Entrambi abbiamo studiato gli stessi documenti, ma è come se tu fossi riuscito, nei tuoi libri, a prevedere degli assetti geopolitici che si sarebbero configurati solo dieci anni dopo (penso allo strapotere cinese di cui parli nel Drago o alle strutture “federali” di intelligence a livello europeo di Grande madre rossa). Da dove viene tanta lungimiranza? Come fai a vedere così lontano? C’entrano i tuoi contatti coi Servizi ai tempi dell’esperienza di consulente alla Camera? E, questione che mi pare ancora più nodale in termini letterari: come si trasforma il nudo dato storico (politico, economico, militare) in letteratura di gran classe?
Fino a che punto è lecito forzare il reale a fini narrativi?

GG: Comincio dall’ultima domanda, che per me è decisiva in termini poetici e non soltanto. Ho una posizione personale, in merito, che desidererei fosse chiara: non è apodittica e non intende proporsi come una verità estensibile ad altri che a me.
A mio parere la realtà è allucinatoria. La realtà è sempre percepita e la percezione è, per ogni branca della neuroscienza, un meccanismo allucinatorio apparentemente stabile e coerente, ma in realtà discontinuo. In questo senso, non guardo all’epos, ma a più che l’epos: guardo alla costituzione psichica totale dell’umano. Mi allineo a una tradizione che nella modernità va da Walser a Kafka a Eliot e Celan, passando per Stevens, e culminando con Burroughs. E’ dalla meditazione sulla struttura allucinogena della percezione di realtà che io desumo la possibilità – anzi, per mio conto, la necessità – di allargare il dato allucinatorio, esaltando la discontinuità. Di qui: allegorie che puntano al “fuori” dello stampo umano, ucronie, discronie, visioni da stress post-traumatico che nascondono traumi dietro altri traumi. Il problema è rendere tutto ciò in narrazione che sia leggibile e popolare.
Non è che io abbia una sfera in cui guardi e preveda il futuro. La geopolitica è una disciplina che studio intensamente e si tratta di una scienza molto dinamica, strapiena di variabili, le cui linee generali però si muovono con modalità abbastanza chiare e incontestabili. Quando scrissi Ishmael, l’editore mi chiese perché, anziché Berlino, ambientassi parte della storia ad Amburgo. Poco dopo accaddero i fatti dell’11 settembre e le indagini su Mohammed Atta condussero ad Amburgo.
Se certe cose non si studiano, non si sanno.
Esistono intercettazioni telefoniche di Atta dall’Afghanistan, pubblicate ai tempi su “Panorama”, in cui Atta si lamenta dell’intrusione massiva di questi “ingegneri cinesi”. Tra l’altro, bisogna dire che anticipare in questo modo alcuni movimenti della realtà conduce sicuramente a un insuccesso editoriale.
Penso a due elementi: la scena dei cinesi cadaveri nel container freezer che apre Gomorra di Saviano sta nel mio Drago; Rampini di altro non scrive che di cose che stanno tutte in quel thriller. Non lo sottolineo per narcisismo, dico solo che ci sono momenti in cui certe cose hanno ricezione; se anticipi troppo non puoi poi lamentarti del fatto che queste cose penetrino a stento in ottomila lettori. Si tratta, però, di un elemento secondario, perché è la narrazione di storie aperte che per me è fondamentale.
Quanto a Ultor, trovo una differenza fondamentale con Ishmael.
Ishmael è un nome che evoca un elemento metafisico, oltreché biblico e coranico, quindi religioso. Ishmael osserva e rimanda all’incombere del bianco accecante della balena di Melville, quella tinta che, citando da Agostino, nel capitolo 42 di Moby Dick è definita “cosmetico spirituale”. Per me il movimento di intelligence, che è una costante storica umana in quanto lo è quintessenzialmente di quella potenza extraumana che si incarna nelle strutture di potere (questa lettura è di Burroughs, non mia), è sempre un movimento metafisico: è la scimmia di Dio, che crede in un Dio inesistente e lo imita, proiettandolo. In Assalto tentavo di accostare l’ordine del Cristo ai suoi apostoli al mandato centrale di ogni intelligence. Non si tratta di controllo mentale, sociale e politico: è l’accesso alla pratica metafisica che viene interdetto, in nome di una conquista religiosa – e non è detto che la religione sappia indurre a pratiche metafisiche, come dimostra il cattolicesimo moderno e contemporaneo.

SS: La punta di diamante della tua narrativa credo che sia la transmedialità. Quello che alla prima lettura di Ishmael mi colpì fu la commistione di linguaggi e di suggestioni. Lopez parla come un divo di Hollywood, vive in una Milano nera peggio di Liberty City, indaga senza scrupoli come Kemper Boyd. Eppure guarda le architetture come lo farebbe Renzo Piano. Il narratore che lo accompagna trascende il linguaggio da strada per esprimere lirismi à la De Lillo, ripiomba nelle più crude bassezze ellroyane e discerta di equilibri planetari come il compianto Sbancor.
Ancora una volta (per quanto il quesito sia banale), come ci riesci? In secundis, qual è la valenza narrativa di questo maelstrom di punti di vista? È necessario forzare la gabbia del genere per “andare fino in fondo”?

GG: Tu, in Confine di Stato hai forzato la gabbia fino in fondo. Il problema sta a monte: esiste una gabbia? Per me no. I generi sono metriche e retoriche che si sono cristallizzate in prosodie prevedibili e in stilemi svuotati psichicamente. Il problema centrale è l’affabulazione. Direi che tutto ciò che dici è riassumibile in questo movimento: Lopez non è un personaggio psichicamente coerente. Ma è proprio l’idea che la psiche e la psicologia siano un dato definitivo, idea primonovecentesca ed eminentemente borghese, ciò che io vedo come avversario poetico. La poetica di Piperno, per esempio, è tutta intrisa di questa convinzione laicista, ma per me non radicale e non all’altezza di quanto un intellettuale deve fare nel momento in cui è immerso nel tempo e cerca di scardinarlo. Sono poetiche differenti, ognuna con piena legittimità di esistenza. Il successo della poetica neoborghese, quella alla Piperno, è spiegabile attraverso un meccanismo di identificazione e di mimesi in scala 1:1. Io non cerco quella mimesi e non cerco quell’identificazione: cerco un’identificazione altra. Se la letteratura scatta, e questo lo determina esclusivamente il tempo, l’identificazione avviene con qualunque visione, poiché accade istantaneamente nella percezione della fabula.
Sarei curioso di conoscere la tua opinione. Per come tratti i personaggi, la psicologia ha un ruolo molto importante per te, eppure esiste una totale diffrazione che è data dagli eventi e dalle strutture mobili che metti in campo. La tua rappresentazione letteraria è per me un’osmosi di interiorità sbilanciata dall’esterno. Così stabilisci una continuità discontinua tra personaggio e mondo, tra storia e mito. Tu come la vedi?

SS: Per quanto mi riguarda, occorre fare dei distinguo. Tra quello che ho scritto in principio (Confine di Stato), quello che ho scritto dopo (United We Stand) e quello che sto scrivendo ora (Settanta, il seguito di CDS).
Inerentemente a CDS, credo che tu ci abbia preso. I personaggi sono psicologicamente caratterizzati ma estremizzati nella loro eccessiva bidimensionalità. Ecco perché gli eventi (le strutture mobili di cui dici tu) li mettono così a dura prova. La mimesi non è completa. Quello che voglio è raccontare una storia, fare controinformazione. Per farlo uso marionette pavloviane, Big Jim senz’anima, a scatto fisso. Sono tutti dei duri, a parte Trama che è il weird. Ma, seppur weird, agisce come una marionetta (esattamente come gli altri).
Mi interessa l’impatto dinamico della storia contro la massa statica dei personaggi bidimensionali.
Questo perché, io, un po’ le gabbie me le sento addosso.
Con una gran voglia di sventrarle, beninteso. E allora in un romanzo è cosa buona e giusta far agire i personaggi in maniera fumettistica.
Simile e inverso di segno è il discorso per UWS. Proprio perché si tratta di fumetto, il suo ancoramento al reale deve essere mostruoso, fuori misura. Iperrealismo visivo (immagini quasi fotografiche), personaggi ultra caratterizzati (nessuno assomiglia a nessuno) e secondo livello mediatico (il sito, con i vari racconti tangenziali, i giornali fake che informano sull’andamento del mondo sotto minaccia nucleare, le voci in presa diretta dei sopravvissuti all’assedio) per rendere la faccenda il meno fumettistica possibile.
Anche qui, una gabbia che salta. E i personaggi (anche qui pavloviani, anche se “inversamente pavloviani”, rispetto all’accezione di cui si diceva prima) che agiscono di conseguenza.
Differente la prospettiva per Settanta. Qui il punto di vista cambia. Il mondo reale non è più così reale. Il narratore affabula, inventa, crea (finalmente) un universo, che non è più così simile a quello in cui viviamo o abbiamo vissuto.
E i personaggi in quell’universo maturano, evolvono, mutano, si caratterizzano. Finalmente liberati dal riflesso pavloviano. Credo che Settanta segnerà un’evoluzione stilistica nel mio lavoro.

GG: Ecco, questa consapevolezza che sembra calcolare e invece non calcola affatto, ma realizza mentre crea la forma, mi pare un elemento distintivo di chiunque sia emerso da quei sottogeneri del romanzo che sono thriller, noir, fantascienza (includerei anche il “rosa”, che è una mia vecchia tentazione provare a sperimentare). Qui mi occorre farti una domanda, che pertiene l’intimo del momento letterario. Io sono assai spaventato dall’idea che le poetiche, le intenzioni, si mangino l’esito testuale. Sono certamente convinto che in ogni caso un’eccedenza del testo ci sarà, ma ravvedo in tanta narrativa di oggi questa tentazione algebrica, che in parte è dovuta a un sindrome di controllo interno da parte dello scrittore e in parte è dovuta a un cedimento davanti a supposte richieste di mercato della fabula. E’ ironico che, scrivendo di strutture di controllo politico o super-politico, mi pare che entrambi abbiamo anzitutto da superare un controllo interno. E, per quanto ironico, c’è il fatto che nei tuoi libri la materia sostanziale, quintessenziale è il mistero. C’è una frizione tra la sostanza ubiquitaria, che è mistero, e qualunque paradigma di controllo emerga: questo, secondo me, sia nel romanzo sia nel fumetto, crea l’affabulazione che è la tua cifra. Tu avverti questi “confini di stato”?

SS: Sicuramente so che storie voglio raccontare, e qui i casi sono due.
O parlo del passato, dove l’abbrivio è dato dal “nudo fatto” e solo successivamente entrano in gioco caratterizzazioni, distorsioni e interpretazioni volte ad affabulare.
O immagino il futuro, e qui la sponda documentale è ovviamente inesistente. Dunque uso il cinema apocalittico paranoide (l’antesignano di quello che citavi tu prima, che ha negli anni Ottanta di War Games, Alba Rossa e Sindrome cinese la sua età dell’oro) per rendere l’affabulazione sostenibile da un punto di vista narrativo.
In entrambi i casi non c’è il vantaggio della pagina bianca. L’appoggiare le proprie costruzioni narrative su qualcosa d’altro mette in gioco quel paradigma del controllo a cui fai riferimento.
In molta letteratura italiana contemporanea la preoccupazione per il suddetto paradigma è eccessivamente presente. E talvolta gli esiti narrativi dei “preoccupati” sono rigidi, i prodotti “forzati”, poco leggibili. Il rischio di rimanere impigliati nella rete dell’eccessiva coerenza c’è.
Tuttavia, più s’impara il mestiere, più è naturale sentir meno il peso del “materiale d’appoggio”.
Pensa ad esempio a Stella del mattino di Wu Ming 4 o al tuo Hitler. L’ancora documentale è leggera e sfuggente, al punto che siamo ancora qui a discutere se Hitler possa o non possa definirsi romanzo.
Se s’impara bene a gestire la cosa (tu e i Ming avete imparato da un pezzo, io ci sto ancora lavorando), i generi smettono di essere un problema e l’affabulazione (anche quella che ruota vorticosamente intorno al “mistero”) è scorrevole.

GG: Da questa prospettiva che enunci, e che io condivido pienamente, si apre la possibilità di una indifferenza di fondo nella trattazione di passato e futuro, poiché automaticamente convergono sul presente. Questa possibilità è data dall’allegoria. Il fatto di appoggiarsi a “qualcos’altro”, come dici tu, apre a retoriche di distorsione a partire proprio dall’elemento di appoggio. Se questo è posto nel passato, si distorce per far rimbalzare la visione su presente e futuro; se l’appoggio è collocato nel futuro, immediatamente ha un effetto retroattivo e raggiunge, come un arco voltaico elettrico, il nostro tempo e radici antiche del nostro tempo. E’ il concetto di romanzo metastorico che Wu Ming 1 ha fenomenologizzato nel suo saggio sul New Italian Epic: in realtà il romanzo è sempre talmente storico, che è metastorico, altrimenti sarebbe un saggio di passatistica o un trattato di futuristica. E’ la finzione allegorica a creare l’elemento metastorico: il fatto che il racconto significhi altro oltre l’immagine e la storia raccontate...

SS: A proposito del New Italian Epic (si veda, in merito, il saggio di WM1, recentemente presentato su Repubblica e scaricabile da www.carmillaonline.com): Roberto (Bui, a.k.a WM1) ha iscritto Grande Madre Rossa a pieno titolo nel filone di cui ha delineato le caratteristiche nel suo saggio. Io credo che ci abbia preso in pieno. Ma credo anche che le tue ultime produzioni (Hitler in testa) siano altrettanto includibili nella categorizzazione. Che ne pensi? Quali sono state le derive più meramente epiche del tuo lavoro e come hanno influenzato la tua produzione?

GG: Posso dire questo: il testo ha un’eccedenza rispetto alle intenzioni. Se WM1 ravvede in quell’incipit il movimento che descrive, riunisce l’esito letterario alle mie intenzioni: io intendevo fare proprio quella cosa che in New Italian Epic viene così filologicamente fenomenologizzata.
Hitler in sé è un romanzo che non lo è. Lì io tento una cosa che davvero non so se mi è riuscita: le critiche arrivatemi addosso, gli argomenti utilizzati per dire che il libro fa schifo tenderebbero a confermare che l’operazione è riuscita. Ma lo dirà il tempo. In questo caso, io adotto definitivamente la radice metafisica come nucleo sorgivo di un epos possibile: il mito storico e immaginario di Hitler crolla se e solo se si sa e si sperimenta l’elemento metafisico, che è semplicemente la sensazione concreta di essere presenti mentre una cosa accade. Questa sensazione non è allucinatoria: è essa che vede la percezione, la quale è instabile. L’elemento metafisico esige certe retoriche: la tragedia non poteva utilizzare altra lingua, altra struttura, per esaltare l’implicito che non ha linguaggio. Queste retoriche sono abbandonate dalla modernità. Tale abbandono pone per me un quesito fondamentale: l’abbandono avviene col romanzo, che quindi è adatto a incarnare la potenza tragica? Sto con Aristotele, che, nella Poetica, dice semplicemente che Omero non scriveva ditirambi, istituendo una continuità tra epica e potenza tragica (e, in effetti, l’epica mi pare un assommarsi di tragedie incollate tra loro secondo un magistrale protocollo narrativo)? La tragedia si fonda su un vuoto, per quanto concerne me – quel vuoto non si può dire, ma vi si può infinitamente alludere. L’infinità delle allusioni a quel vuoto, che non è soltanto umano, ma non rappresenta alcuna forma superumana o extraumana, è direttamente l’infinità delle storie.
Su questo punto vorrei interrogarti. Tu fornisci una fortissima transmedialità (non nel senso da te conferito prima all’interno di un romanzo) alle storie che scrivi: trapassi dalla letteratura al fumetto al video al fotoromanzo. Quale filo tiene assieme tutte queste manifestazioni rappresentative? E’ la storia? Di cosa è fatta la storia raccontata, e quindi prima immaginata, per te? E’ una questione che mi affascina, perché il tuo lavoro esplode mantenendosi compatto, è coerente pur deflagrando e mi chiedo come fai, quale sia l’elemento subliminale che tiene tutto assieme...

SS: Credo che alla base di tutto, ancora una volta, stiano i personaggi. Sterling è assoluto, transgenerazionale, ultraversatile. Difficilmente me ne libererò. Più facilmente lo riciclerò all’infinito, tritandolo in plurime versioni, stravolgendolo, reinventandolo. Esattamente come si fa coi comics d’oltreoceano da un sacco di tempo (qui in Italia no. Tutti i Bonelli sono cloni di Tex. E l’immobilismo li affligge come un cancro).
Allo stesso modo, sulla strada, ho trovato altri personaggi. Il più delle volte elaborati sullo schema di personaggi storici (vedi il mio Ettore Brivido, così simile al duro della Comasina), altre volte nati per caso (il gangster paffuto che interpreto in Ruby Soho, il fotoromanzo attualmente in produzione, è nato per caso, anni fa, a una festa in maschera. Da semplice feticcio volto a farsi quattro risate, ha preso corpo).
Il medium non è così importante. Sono importanti le storie e ancor di più i character. Questo, credo, dà la compattezza che dici al mio lavoro. Più ancora della Storia o delle storie.

GG: Metti in luce una lingua sotto la lingua, in realtà: è la lingua di un incantamento, che ovviamente esige forme, immagini, sagome per concretizzarsi. I movimenti del personaggio, leggendoti, mi sembrano ancora più importanti del personaggio, e lo sfondo in cui si possono percepire questi movimenti, ancora di più. Credo che la tendenza alla centratura sul personaggio, per come la pratichi tu, cioè scardinando la psicologia, utilizzando la bidimensionalità o lo stridio tra registri e piattaforme, preluda ad abnormi e inaspettati mutazioni della tua scrittura...

SS: Credo che queste righe siano l’analisi più efficace del mio lavoro da quando l’ho iniziato. Hai colto nel segno: sono più interessato ai fatti che hai personaggi, ma è proprio questo estremo interesse all’andamento delle cose che me li fa caratterizzare in maniera così particolareggiata nel nuovo romanzo.
Sperimentando la bidimensionalità dei character in Confine di Stato ho capito di avere in mano un medium insufficiente per raccontare veramente le storie che voglio.
Entrare nella testa del personaggio (meglio se storico), stravolgerlo, presupporne la psicologia, metterlo in moto secondo dinamiche estremamente plausibili, permette alla materia documentale di esorbitare. La narrazione non assomiglia più alla nuda cronaca, si compie in parte quella partecipazione diretta di cui hai detto a proposito di Hitler, si catapulta il lettore in mezzo agli eventi.
Così vorrei che fosse Settanta. La strada per arrivare a tali esiti passa sicuramente attraverso i personaggi e la lingua (specialmente quella parlata dai personaggi stessi). È lì che sto lavorando duramente. È lì che sto modificando il mio modo di narrare.

SS: Voglio chiudere con un quesito speculare a quello con cui abbiamo aperto questa chiacchierata. Il tuo abbandono del noir è ormai conclamato. Con grande rammarico dei tuoi lettori, io in testa.
Per mantenere accesa la speranza, tuttavia, mi chiedo se questa defezione includa definitivamente anche Guido Lopez, il protagonista dei tuoi libri che amo di più.
Mi chiedo se mai tornerà (mutato e stravolto, perché no? In ottemperanza a quella “reversibilità” dei personaggi che propugno a spada tratta in ciò che scrivo, per esempio) in qualcosa di tuo. E se mai tornerai a occuparti di intelligence come facevi un tempo (già nel Dies Irae la prospettiva non era più la stessa, ne converrai) Spero proprio di sì. Noi lettori sentiamo una gran mancanza di quelle parole.

GG: Hai sicuramente intercettato l’obbiettivo del mio lavoro a venire. Io mi sposterò sul futuro. Non so quando e dove mi sarà concesso dal punto di vista editoriale, ma ciò che intendo fare è prendere il futuro immediato, cercare l’allegoria che mette in stato allegorico anche il passato e soprattutto il nostro presente. Ho da anni in testa una trilogia particolare. Qui è previsto il ritorno di Lopez, in forma di una reincarnazione passata di uno dei personaggi. Già oggi esiste una continuità di Lopez: in realtà Lopez c’è in Dies Irae, anche se non si capisce che è lui.
Perché io ho smesso di scrivere thriller con Lopez protagonista? Per stanchezza, anzitutto. Perfino l’assenza di psicologia è psicologica. E’ un meccanismo che, con una profondità abissale, Pasolini mette sotto fuoco in Petrolio, nella scena del “Pratone della Casilina”: venti e passa pagine dove il protagonista, diventato donna, soddisfa oralmente giovani borgatari. Una ripetizione che varia nelle figurazioni, ma angosciantissima in quanto lugubre e profetica della serialità. Io non tollero la serialità. Per cui, detto che esiste un inedito che ha Lopez come protagonista (non so se e quando e quali editori lo stamperanno), io sogno l’annullamento di Lopez così come sogno l’annullamento non del noir o del thriller, ma del mio noir, del mio thriller.
Oggi occuparsi di intelligence nella narrazione è controproducente. Esiste una vastissima letteratura saggistica, sdoganata e fiorita a partire dall’11 settembre. Non funziona più l’allegorema, utilizzando l’intelligence. Poiché la situazione si è spostata: si è spostata nel futuro. La situazione geopolitica per molti anni, a meno che non intervenga il collasso climatico che stiamo imponendo al pianeta, sarà questa: tentativo dell’Occidente di conquistare la cosiddetta “corona” di Paesi ai confini della Cina; mossa sul mercato da parte dei Cinesi; variabile russa che l’Occidente tenterà di conquistare alla sua causa; petrolio contro grano e riso, quale risposta della Corona inglese che non dispone del controllo della produzione petrolifera e reagisce con movimenti speculativi grazie al controllo sul cartello agroalimentare; tentativo di sistemazione del Medio Oriente, soprattutto facendo leva sulla Turchia, che sta per tagliare le risorse idriche che giungono a Israele; tentativo di creazione di un grande Stato dato alla Umma, al radicalismo islamico; definitivo attacco dell’Occidente, mosso da Londra, al cattolicesimo, che già da ora è finito, si è protestantizzato. Ora, i riflessi in Italia delle operazioni di intelligence che ci attendono sono marginali, periferici. Sicuramente non permettono l’allegoria. Che, dico, si sposta più avanti – in un altro genere letterario che, per l’appunto, mi interessa molto. Quando dico che la geopolitica si farà altrove, intendo proprio un altrove che non sta qui.
Perciò quanto devo fare è collocare l’allegoria in uno spazio fisico per significare una tensione al percorso metafisico, che nulla ha a che vedere con la religione. Il futuro, per me, è Kubrick. Spero che i lettori accettino lo scambio.

martedì 2 settembre 2008

Proprio sul più bello...


...quando tutto sembrava filare per il verso giusto (lavori che procedono in parallelo, tabelle di marcia più o meno rispettate, etc. etc.), mi sono beccato un'influenza che levati.
Nella foto il sintomo principe della patologia (secondo solo alla febbre).
Vi rendo edotti non tanto perchè la notizia sia interessante di per sè, ma perchè nei giorni a venire potrei latitare un po' dalla rete (al momento mi reggo in piedi a fatica). Se mi avete scritto e non vi ho ancora risposto, sapete perchè.
Abbiate pazienza: non appena mi rimetterò in sesto vedrò di smaltire la corrispondenza arretrata.
So che capirete.
Statevi bbuò (almeno voi).