Meglio partire diretti, così ci leviamo subito il dente: io odio gli anni Ottanta.
Nonostante questo, sono d’accordo con Saverio Fattori che non si possa non fare i conti col deprecabile decennio. In questo periodo di alacre stesura del nuovo romanzo sono così immerso nei Settanta che a momenti mi dimentico quello che è venuto dopo.
Nato nel 1978, del decennio di piombo non ricordo, ça va sans dire, nulla. Ma ho studiato lo studiabile, ascoltato il necessario e visto il fondamentale.
Risultato: amore a prima vista.
Negli Ottanta, invece, ci sono cresciuto. E rimembro con sommo dispiacere la musica orribile, Reagan e quel torbido senso di successo a tutti i costi che serpeggiava nell’aria.
Detto questo, senza gli Ottanta non credo che potrei scrivere ciò che scrivo.
La sofferta riflessione è nata ieri sera, dopo la visione di John Rambo, il quarto capitolo della stallonica saga che dura da più d’un ventennio.
Io e il mio socio Rudoni, lasciate a casa mogli e fidanzate, eravamo in cerca di un filmaccio ammazza ammazza, un paio di panini con salsiccia e due birrone da competizione.
Spettacolo delle 20.00. Numero di persone in sala: 4 (compresi noi due).
Tutto prometteva per il meglio.
Vi spiego: non è masochismo, è pura voglia di trash. Anni fa organizzavo serate analoghe a casa mia, affittando i peggiori Van Damme (quello con Dennis Rodman guest star era il nostro preferito) o rivedendo a ripetizione le puntate registrate di Sledge Hammer (vera chicca per intenditori. Una delle poche cose decenti prodotte negli Ottanta).
Be’, che vi devo dire? Ieri sera si è comunque mangiato pesante, ma si è finiti a vedere un gran bel film.
C’era tutto quello che ci aspettavamo (Stallone con la fascia che spara con un’enorme mitragliatrice), ma in mezzo alle pallottole c’era qualcosa in più. E non mi riferisco all’ambientazione Birmana, con l’ultraviolenza quasi documentaria.
Parlo piuttosto di regia e caratterizzazione del personaggio.
Conscio di addentrarmi in una tematica molto poco per signorine (in gergo: scacciafiga), devo necessariamente essere più preciso. Nell’ultima prova del vecchio e gommoso Sylvester ho scorto importanti connessioni tra il mito per eccellenza dell’anti american heroe e il Punitore di Ennis.
Il Rambo del 2008 è fatto di guerra e d’acciaio, continua a tritare i cattivi con la mitraglia, ma è qualcosa d’altro rispetto al se stesso di vent’anni fa.
È più cattivo, più disilluso, più cosciente del fallimento del sogno americano.
Non che negli Ottanta John non fosse un reietto, ma il paese a stelle e strisce, sullo sfondo della sua esistenza distrutta, era ancora forte e spocchioso.
Ora la bandiera è un ricordo sbiadito. Non c’è più una Causa per la quale valga la pena combattere. È scomparso Trautman e il senso del dovere old school che si portava appresso.
E qui sta il fulcro di questa traballante riflessione.
Senza gli Ottanta, gli Ottanta di Schwarzie e Stallone, non credo ci sarebbe potuto essere Tarantino.
Voglio dire: i Duran Duran non sono stati necessari per passare dai Sex Pistols ai Nirvana.
Senza Rambo e Terminator, invece, la traslazione da Bronson alla sposa di Kill Bill sarebbe stata impossibile.
E qui torna in gioco il Punitore di Ennis. Garth Ennis, nume tutelare del fumetto MADE IN USA, ha ripreso da qualche tempo a sceneggiare la fortunata serie nata a metà dei Settanta.
Il Punitore è, in sostanza, John Rambo: un reduce del Vietnam a cui la vita ha tolto tutto.
Se John è tornato dall’Asia pieno di paure insormontabili, Frank Castle (il Punitore all’anagrafe) era riuscito a lasciarsi il ‘Nam alle spalle. Sfortunatamente dei cattivoni gli sterminarono la famiglia, in Central Park, un pomeriggio qualunque del ’76 (secondo le ultime versioni). Da quel momento Frank smise di essere un civile e ingaggiò la propria guerra personale contro i cattivi.
Iniziò a uccidere mafiosi e finì per diventare il peggior nemico del crimine newyorchese.
Negli anni Il Punitore ha avuto alti e bassi, ma da quando Ennis si occupa di lui è finalmente un personaggio tridimensionale: disilluso, perfettamente addestrato, capace di portare in pagina dialoghi strepitosi.
All’inizio della sua carriera (1986) era solo una pallida imitazione di Rambo. Oggi Rambo è una splendida riproduzione del Punitore.
Chiudo la parentesi scacciafiga ed arrivo al punto.
Gli anni Novanta hanno stravolto il concetto di antieroe. Da Pulp Fiction in poi i duri sono arguti, spiritosi, cattivissimi e determinati. In due parole: moderni. Dannatamente umani.
Ma senza archetipi su cui lavorare, la trasformazione sarebbe stata impossibile.
Il Bronson de Il giustiziere della notte fa paura ma è pressoché muto. Non sai cosa pensa. Ne intuisci la rabbia, la sua determinazione in combattimento è evidente, ma non ti stravolge. Non salta fuori dallo schermo.
Idem per l’Eastwood/Ispettore Callaghan. Non tiriamo nemmeno in ballo gli sbirri settantini di casa nostra (Maurizio Merli o Luc Merenda, ma pure Franco Nero). Io adoro il genere, ma sono obbligato a riconoscere la totale assenza di profondità di quei character.
Pochi anni dopo di loro, invece, ecco che appaiono Schwarzy e Stallone. E insieme a loro si fa largo a spallate Harrison Ford, che con Blade Runner e la serie di Indiana Jones cambierà le cose per sempre.
Dall’81 in poi, come per magia, i duri non si limitano a sparare, ma infarciscono l’azione di battute sagaci. Smettono di essere politicamente corretti senza per questo diventare dei villains.
Mentre Craxi fa quel che gli pare col nostro paese e quel signore basso basso cambia per sempre il modo di comunicare con sue televisioni, al cinema va in scena un terremoto.
I film d’azione diventano per ragazzi (ok, Rambo 2 era ancora vietato all’epoca, ma era un’eccezione. Commando andai a vederlo al cinema…). I bambini (bontà loro) giocano alla guerra nel cortile di casa e immaginano sparatorie tra i palazzi, guerre nella giungla, magiche scoperte nel deserto.
La mia generazione di narratori nasce lì. Cresce col mito (cinematografico) di Schwarzie e Stallone.
Tutti, a diciotto anni, ci siamo vergognati (specie nei collettivi studenteschi) di quel tipo di frequentazioni. Abbiamo rinnegato l’america capitalista e i suoi miti fascistissimi (pensate all’Eastwood di Gunny).
Un po’ più grandini, grazie a Dio, abbiamo fatto pace con la nostra coscienza e ci siamo resi conto che quelle quintalate di pallottole conservatrici in scena sul grande schermo altro non erano che i prodromi di un nuovo modo di narrare.
Poi è arrivato Tarantino e i più coraggiosi tra noi hanno iniziato a mettere nero su bianco le proprie ossessioni.
Il fatto che, a vent’anni di distanza, si senta ancora l’esigenza di portare in scena certi miti è piacevolissimo.
Ma il rischio di “cagata pazzesca” (citando l’immarcescibile Fantozzi Ragionier Ugo) è come sempre dietro l’anno.
Grazie a Dio esistono produzioni come John Rambo e Terminator – The Sarah Connor Chronicles (serie americana di cui, ve lo prometto, a breve scriverò diffusamente).
Guardandole si ha la sensazione che gli “anni di merda” di Paolo Rossi abbiano lasciato qualcosa di buono.