DA DOVE VENGO IO - CENT'ANNI vol.1

martedì 5 aprile 2011

Una buona notizia e una cattiva. Prima la buona...

La buona notizia è che ho letto un libro favoloso.

E' uscito quasi un mese fa, in giro l'avrete visto senz'altro: in libreria, o sul paginone di qualche quotidiano. S'intitola MILANO CRIMINALE e l'ha scritto il mio amico Paolo Roversi.
E' uno di quei libri così fottutamente riusciti che avrei voluto scriverlo io, lo dico subito.
E' un libro che ho atteso tanto, sul quale avevo davvero un sacco di aspettative. Io e l'autore, l'ho scritto due righe fa, siamo amici. Ma siamo anche colleghi, con un percorso narrativo molto simile: abbiamo mosso insieme i primi passi nell'editoria nazionale occupandoci di temi affini (giallo Roversi, noir e storia io) e spesso le nostre strade si sono incrociate: vuoi per collaborazioni comuni (festival, incontri letterari, presentazioni. Paolo è stato il primo in assoluto a presentare Confine di Stato: nella gloriosa Libreria del Giallo di Madame Tecla. Correva l'anno del signore 2007), vuoi per coincidenze tematiche.
Proprio quest'ultima convergenza è il motore dell'attesa maturata dal sottoscritto intorno a MILANO CRIMINALE.
Ma andiamo con ordine: nel suo terzultimo romanzo, il quarto del ciclo di Radeschi, L'UOMO DELLA PIANURA (Mursia, 2009), Roversi per la prima volta si è occupato di un cattivo come si deve e lo ha fatto parlare in prima persona. Il suo Hurricane, il killer con un passato da bandito, cresciuto a San Vittore e fattosi le ossa per le strade della Milano dei Settanta, ha una parentela dichiarata con Vallanzasca e Turatello. Molte parti della sua vita passata assomigliano palesemente a quelle dei re del crimine meneghini degli Anni di Piombo.
La creazione di quel personaggio era un primo timido (riuscitissimo) tentativo di cambiare terreno di gioco. La sua scrittura, solitamente così slegata dalla storia e fieramente ancorata a fondamenta da giallista di gran classe, aveva poco a che fare con il passato. O, se andava a scavere in brutte e vecchie storie nere, non aveva troppo bisogno di un passaggio preventivo in biblioteca o in emeroteca. La fantasia e lo stile dell'autore bastavano e avanzavano.
L'UOMO DELLA PIANURA, però, ha cambiato tutto.
Quel primo sconfinamento ha acceso una miccia.
Una di quelle lunghe, per un botto coi controcazzi.
Ho fatto due conti: sono passati due anni da quando Hurricane è arrivato in libreria. Due anni in cui Roversi (uno scrittore da un paio di libri l'anno, per chi non lo conoscesse: uno che a vomitar battute alla tastiera tiene testa al sottoscritto senza fatica) ha pubblicato un solo titolo: PESCEMANGIACANE, un noir di ecomafia uscito per VERDENERO di Edizioni Ambiente. Chi conosce la collana sa che in genere i volumi non superano un certo numero di pagine. Sono storie brevi e taglienti, che sputano in faccia al lettore la verità sul malambiente e gli ecocrimini.
Duecentomila battute in due anni? Non è da Roversi.
Sicuramente sta lavorando a qualcosa di grosso... Così si saranno detti i suoi lettori in quei ventiquattro mesi trascorsi dall'uscita di L'UOMO DELLA PIANURA a un mese fa.
Avevano ragione.
Cambio di editore (da Mursia a Rizzoli), cambio di personaggi (spedito in panchina il buon Radeschi e sfoderati due character nuovi di zecca: uno sbirro testa dura e un bandito coi coglioni), sguardo coraggioso e corale su un periodo storico difficilissimo e poco indagato dalla letteratura di genere (Gli anni Sessanta, gli anni del boom e della rivoluzione), Roversi ha calato l'asso: MILANO CRIMINALE è il romanzo definitivo sulla ligera e sul crimine meneghino d'inizio anni Settanta.
La trama, in breve.
Poi i tanti pregi e pochi (pochissimi) difetti.
27 febbraio 1958: in via Osoppo, nel cuore popolare della periferia meneghina, ha luogo la Rapina del Secolo. Un assalto a un furgone portavalori messo a segno con strategia militare e sangue freddo cambierà per sempre il modo di delinquere nel nostro Paese.
Al noto fatto di cronaca (cui anch'io, anni fa, dedicai un racconto. Un Sentiero di Seth, uno spin-off del romanzo d'esordio di KAI ZEN, La strategia dell'Ariete) assistono due sbarbati: Antonio Santi e Roberto Vandelli. Entrambi, quel giorno - testimoni oculari della oscena e meravigliosa potenza del crimine - scelgono cosa faranno da grandi: il primo sarà uno poliziotto. Il secondo consacrerà la sua vita alle "dure". Lo sbirro e il delinquente, destinati a rincorrersi per quasi due decenni attraverso le pagine d'un romanzo portentoso.
Un libro che è la storia di due carriere (pulotto e durista), che tira in ballo l'archetipo per eccellenza (buono vs cattivo), ma che, soprattutto, spalanca una finestra sulla MILANO CRIMINALE degli anni ruggenti. Il grande pregio della narrazione di Roversi è quello di non stringere troppo il focus sui protagonisti, di lasciarli crescere coi tempi giusti, mentre il piombo dei Re della Rapina intorno a loro trasforma la patria del panettone in un nuova Chicago Anni '30. Banditi mitici come Leandro Lampis, il Solista del Mitra (chiaramente ispirato a Luciano Lutring) o batterie di rapinatori leggendari come La Banda Cavalieri - capitanata dal Bandito dai denti di Lupo (la ben nota Banda Cavallero, nata nei bassifondi di Torino e presto trasferitasi all'ombra della Madunina) - rubano la scena con colpi grandiosi e vite vissute al massimo tra puttane, champagne e auto di lusso. Si levano di torno solo quando i nostri due ragazzi sono abbastanza grandicelli per fare da soli: è allora che il giuoco comincia a farsi tosto sul serio. Santi, dopo un breve e intenso apprendistato inseguendo i migliori duristi in circolazione appresso al senior-sbirro Nicolosi, si ritrova a dividere la vita tra le botte in testa agli insorti in università, una moglie comunista da gestire e un nuovo tipo di criminalità troppo difficile da inquadrare.
A bordo del treno dei Nuovi della Mala, che viaggia a mille all'ora e non ha rispetto per nessuno, c'è invece Vandelli, che spaccata dopo spaccata, sgobbo dopo gobbo, inventa una maniera mai vista prima di essere criminali: giovane, sfacciato e imprendibile, il bandito ragazzino insegna al mondo di cosa è capace la sua micidiale batteria.
E mentre i ragazzi, ai lati opposti della barricata, diventano uomini, il mondo intorno a loro gira impazzito: si passa dai dischi di Buscaglione a quelli Celentano e degli Stones, i milanesi viaggiano per la prima volta in metrò, le donne e i compagni scendono in piazza a gridare che siam tutti uguali e l'uomo - nel frattempo - va sulla luna; esplode la bomba in Piazza Fontana, l'Italia entra nella storia del calcio mandando a casa la Germania per 4 a 3 e le strade si riempiono del sangue degli innocenti.
C'è la Storia, quella con la S maiuscola, in mezzo alle storie perfette del delinquentello cresciuto alla Comasina e dello sbirro di via Osoppo.
Di pregi, in questo libro, ce ne sono tanti: primo fra tutti, la leggerezza. MILANO CRIMINALE, un bel tomo da 400 e fischia pagine, scorre alla velocità della luce. E, lasciate che ve lo dica, scrivere un romanzo mondo del genere - con tutta la documentazione che questo lavoro comporta - e renderlo leggero come una piuma, non è un cazzo semplice.
Io lo so come vanno queste cose: ho passato un sacco di tempo in mezzo ai libri e ai giornali di quarant'anni fa per scrivere SETTANTA. Le storie ti entrano sottopelle ed è un attimo perdere la brocca. Tutto quell'universo ti esplode in faccia, prende il controllo dei tuoi personaggi, li trasporta in situazioni impreviste. E, mentre lo fa, tutto rimane faticosamente dominabile, perchè ci sono un sacco di informazioni, di particolari, dettagli, flash e domande (Un sacco di domande: chi diavolo era primo in classifica nel '71? Come si chiamava il capitano del Milan nel '64? E il ministro dell'agricoltura? E Mike Bongiorno che cacchio di trasmissione faceva nel '75? E la signora Longari? Mi è caduta sull'uccello è prima o dopo Piazza Fontana?).
Ribadisco: già stringere le briglia di due o più storyline non è uno scherzo. Se poi le linee narrative devono essere immerse in un preciso contesto storico, il bordello è doppio. Perchè è proprio al clou della scena d'azione, al top di quella romantica oppure nel bel mezzo di quel dialogo fondamentale per la comprensione della complicata architettura del romanzo, che quella fottuta vocina nella testa si mette a urlare: PIU' PARTICOLARI! PIU' CRONACA! PIU' AMBIENTAZIONE! PIU' COSTUME! SE NO NON SEI CREDIBILE!
SE NO NON SEI CREDIBILE!
E allora, vacca merla, ti tocca mollar giù tutto e andare a scartabellare gli appunti per vedere che combinava il Mike nazionale e sbatterlo in sottofondo, nella tv accesa nel salotto dove i tuoi personaggi discutono (ma la TV era già a colori? No no, i colori arrivano dopo il '79... caaazzo...).
Un vero strazio. Ma è la parte del gioco che lo rende così fico.
Alla fine, tutti se ne accorgono che è molto più cool che il tuo personaggio dica: "Sbattitelo in culo quel ferro, sbirro!" dopo aver fumato una Muratti e aver ascoltato Se mi lasci non vale al jukebox a gettoni. Se l'avesse sbattuta lì a muso duro, quella frase da brillantone anni Novanta MADE IN QUENTIN TARANTINO, i lettori avrebbero subito puntato il dito esclamando: "Ma che c'azzecca? Mica si parlava così, allora..."
Ora, invece, grazie alla Muratti e alla voce del caro vecchio Julio, il pubblico si sente in diritto di esclamare: "Che ficata! Anche allora si parlava sporco! Com'è moderno questo diavolo d'un libro!"
Funziona così.
Per fare un buon romanzo storico, la Storia la devi studiare, impastare, schiacciare e pressare come le patate nello schiacciapatate. Poi sentiti libero di aggiungere uova (i tuoi personaggi, la tua storia) e un pizzico di farina (quello che i critici dei giornali chiamano stile), ma sappi che alla fin fine, anche se li imbottirai di ragù (copertina, comunicazione, pubblicità, marketing) quegli gnocchi che tu chiami "Il mio romanzo storico" sapranno sempre più di patate che d'altro. Dunque vedi disceglierle con cura, quelle fottute patate.
Ci vogliono attenzione e cura per fare un buon romanzo storico.
Ma cura e attenzione non sono sufficienti per rendere il complesso d'informazioni ambientali tanto robusto da informare e rallegrare e tanto leggero da scivolare tra le righe.
Per un lavoro del genere ci vuole talento.
E qui, lasciate che ve lo dica, il buon Roversi ha dimostrato di averne a pacchi.
La maturazione iniziata con L'UOMO DELLA PIANURA è finalmente venuta a compimento. Mi auguro (da lettore) e gli auguro (da scrittore) una lunga serie di romanzi del calibro di MILANO CRIMINALE. Delizia per le nostre librerie.
Orgoglio per la sua hall of fame.
Ok, direte voialtri là fuori, abbiamo capito che ti è piaciuto.
Ma 'sto benedetto libro è proprio senza difetti?
No, per carità. American Tabloid è perfetto.
Il Pendolo di Foucault
è perfetto.
Q
è perfetto.
Romanzo criminale, cazzo: quello sì che è perfetto.
Questo romanzo non è perfetto.
Non è l'equivalente meneghino del capolavoro di De Cataldo sulla Banda della Magliana.
Però, nonostante tutto, i difetti rimangono pochissimi.
- La lingua, anzitutto. Con un titolo del genere, i dialoghi in milanese sono decisamente troppo pochi. E troppo approssimativi. Alcune scelte linguistiche riguardo alla grafia del dialetto meneghino non mi soddisfano. Ma io son fissato coi dialetti, lo sapete. (Per contro, mi piace molto l'uso disinvolto che viene fatto dei termini gergali riguardanti le rapine e il mondo della mala: niente spiegazioni. Se non un dizionario alla fine).
- Le scene di sesso potevano essere più esplicite. Ma io son fissato con le scopate pirotecniche, lo sapete.
- Il narratore è un po' troppo monocorde. Gli capita poco di frequente d'incazzarsi o incendiarsi a seconda dell'umore del personaggio di cui narra. Ma io ho letto Genna, maledetto lui. E non riesco più a togliermelo dalle testa, lo sapete.
- Infine, l'ultima parte sui serial killer a me pare di troppo. Ma forse mi sbaglio. In fin dei conti, anche quello è un nuovo modo di intepretare il crimine.
Per il resto, siore e siori, godimento puro.

Ricapitolando: è uscito un romanzo strepitoso. E ho avuto la fortuna di leggerlo poco dopo il suo arrivo in libreria. Sabato prossimo, 9 aprile, avrò anche il piacere di presentarlo nella mia città, Novara, alla Libreria Lazzarelli, in Via Fratelli Rosselli 45 (In centro, Portici Teatro Coccia) alle ore 17.30 in compagnia dell'autore.

E questa era la buona notizia.
La cattiva è che per poco non ho rischiato di giocarmi tutto: libro e presentazione.
Già, domenica scorsa sono finito in ospedale. E ne sono uscito solo oggi.

Una storiaccia. Ma non voglio annoiarvi, per cui sarò breve.
Vi dico solo che in questa brutta storia c'entrano le mie vecchie maledette tonsille. Un medico della mutua docile e incompetente. Un po' di strapazzo lavorativo. E la fottuta macchina burocratico sanitaria italica.
Special guest star: l'art director della più prestigosa discotesca del circondario.
Ma andiamo con ordine.
Sto male da tre settimane. mal di gola, ma niente che mi butti giù così tanto da non risucire a lavorare. Niente febbre, tanto per capirci, anche se deglutire è uno strazio e gli antibiotici fanno e non fanno. Vado dal medico giovedì scorso; lui mi dice: "Ehi, non è poi tanto male la tua gola, ragazzo! Fatti un tampone e rilassati. Quando avrai i risultati, ti darò io l'antibiotico giusto..."
Ok, nessun problema. L'indomani vado a fare il tampone e il tizio corpulento che si occupa della mia gola sentenzia secco: "Giovedì gli esiti! Ma non prima delle 17.30, eh!"
Cazzo, penso io. Mancano un sacco di giorni a giovedì (all'epoca ne mancavano sei. Oggi ne mancano ancora due, pensa te...). E se nel frattempo peggioro?
Nella testa rimbombano le parole rassicuranti di quel geniaccio del mio dutur: Ma non ti preoccupare! Rilassati! E già che ci sei, in attesa dell'antibiotico giusto, fatti queste pastigline di Sgonfia Sgonfia...
Io le pastigline di Sgonfia Sgonfia me le faccio volentieri. Tre al giorno, come dice lui.
Ma non fanno un cazzo. Poco male, penso: lui è il dottore e io non ho la febbre, per cui vado avanti a lavorare senza problemi.
Così venerdì pomeriggio inforco la Sarasso-Mobile e volo alla volta di Asti. Appuntamento in radio (Primaradio) con l'amico libraio itinerante Davide Ruffinengo. Pomeriggio di chiacchiere ai microfoni e cena in quel di Soglio. Cena con l'autore; con gli autori, in effetti. Siamo in due: io e l'ottimo Enrico Remmert. Ad accompagnarci attraverso la selezione di bolliti da dieci e lode c'è anche l'amico Davide Ferraris della libreria Therese.
Nonostante io non sia proprio in forma, la serata scivola via leggera e il pubblico presente pare apprezzare la nostra performance.
Fin qui tutto bene.
Dormo a Soglio: a metà notte mi sveglio in preda ai brividi. Una roba tipo febbre a Quaranta.
Siccome il mio medico dice di non preoccuparmi, nemmeno la misuro. Inghiotto due tachipirine e mi rificco a letto.
La mattina dopo riemergo sudatissimo e sfebbrato dalle coltri.
La gola è un inferno, ma io me ne sbatto. Tanto ho le magiche pastiglie Sgonfia Sgonfia.
Torno a casa, pomeriggio in centro con famigliola e presentazione del grande Malvaldi alla Lazzarelli. Gola malino, cena a base di sushi (un fottuto tormento).
Notte più o meno insonne.
Risveglio di domenica in puro panico: gola gigantesca, voce azzerata.
Mi sa che le merdose Sgonfia Sgonfia non fanno un cazzo...
Non c'è tanto da menarsela: vado al pronto soccorso.
Quando mi fanno passare davanti a una ragazzina che si è rotta in una gara di judo, annuso l'aria: non è buona.
Quando la dottoressa di guardia chiama la sua collega perchè non ha mai visto niente del genere, io penso: "Perchè è una sbarbata d'universitaria al terzo anno".
Quando però la sua collega con tanto di camice col nome si gratta la testa pensierosa e mi spedisce d'urgenza per un consulto in otorinolaringoiatria sono certo che si tratti di cazzi amari.
Vado su al terzo, aspetto un po'.
Poi un dottore di quelli giusti mi dice di aprire la bocca, dà un'occhiata allo scempio al posto della mia tonsilla sinistra e poi parla chiaro: "Qua tocca incidere e drenare, bello. Ti farà un male cane, ma se non lo faccio sono siamo nella merda..."
Ok, non si esprime proprio così, ma nella mia testa il suo "Signor Sarasso, l'aspirazione dell'ascesso tramite siringa e la successiva incisione col bisturi - il tutto con l'unico conforto d'un infefficace anestetico locale spray - non saranno di certo le esperienze più esaltanti della sua vita..." suona come: "Sono caaaaaaaaaaaaaaaaaazzi, amico!"
E poi è solo un'affare di sangue, pus e ferri affilati, gente.
Alla fine l'infermiera mi dice che sono stato piuttosto coraggioso a non lamentarmi.
Che lei - che ha cinquant'anni e il mestiere lo fa da venticinque - al posto mio sarebbe andata in terra lunga e tirata. Io sorrido, abbozzo un: "E' come andare dal dentista. a parte i conati di vomito..." in realtà penso: "MACHECCAAAAAZZOOOOO!!! Se il medico me l'avesse detto più di un secondo prima di entrare in azione, quello che aveva in mente per la mia gola, avrei tagliato la fottuta corda, altro che coraggio da cow boy del mio sedere.
Invece la corda non l'ho tagliata.
Loro hanno tagliato me e adesso va meglio.
Mi dicono che di tornare a casa non se ne parla. Mi tocca star dentro un paio di giorni, sotto antibiotici e a digiuno. Solo liquidi in vena: la religione della flebo.
Per la prima metà della giornata mi annoio a morte e medito la fuga.
Poi arriva un tipo geniale a tenermi compagnia.
Stesso problema, stesso trattamento. In un attimo siamo fratelli.
Non abbiamo un cazzo in comune (io rosso, grosso e scrittore; lui nero, palestrato, sportivo e art-director), ma ci intendiamo da Dio.
Due giorni a imbottirci di medicinali, mangiare un bel niente e sparar cazzate.
Discorsi assurdi: da Pennacchi a Stephen King a Lele Mora, passando per THE SOCIAL NETWORK (visto: niente male) e il culo di Belen (visto anche quello. Niente male neppure lui).
Stamattina, il verdetto: io esco. Con la promessa di tornare il 14 a farmi dare una contrallata. Se le mie tonsille non si rimettono in sesto, tocca fare ZAC! ZAC! (fa proprio così il dottore cazzuto: ZAC! ZAC! con la manina. Li mortacci sua...)
Fanculo, bambine, vedete di aprire bene le orecchie: ora noi ci s'imbottisce di roba a dovere, s'ingoia tutto quello che ha prescritto il medico e giovedì 14 si va a fare una bella figura, ok? Ho bisogno di voi: non ho nessuna intenzione di lasciarvi andare!

Al mio amico non va così di lusso: domani lo tagliano e dovrà dire addio alle sue sorelline.
(detta così sembra che siano pronti a regalargli la patente di eunuco, ma si tratta solo di tonsille. State calmi).
Il che significa due settimane di convalescenza se va bene.
Fate conto che già dopo 48 ore in ospedale entrambi davamo di matto.
A lui va tutto il mio bene. Il mio affetto e il mio sostegno.
Tieni duro e dagli addosso, mister S.
Al dottore cazzutto, alla dottoressa giovane, a quella un po' più alta in grado e persino alla tipa all'accettazione del pronto soccorso va tutta la mia gratitudine. Nice work, guys.
Al mio medico curante, un consiglio: la prossima volta, amico, ti conviene aguzzare la vista. O io finirò per arrabbiarmi sul serio. E tu, ometto, non mi hai ancora visto arrabbiato.
Alla macchina burocratica che sovrintende visite e prenotazioni sanitarie, un sonoro vatlapièntalcu (lo so, ci vorrebbe la dieresi, ma blogspot è quel che l'è...): a dar retta a loro, ci andavo in setticemia a ritirare l'esito del tampone dopodomani. E magari, dopo l'intervento, con tutta calma, potevo pure recarmi alla visita otorinolaringoiatrica prenotata per il 10 maggio, sfoggiando un bel paio di un cazzo di niente in fondo alla gola.
Insomma, gente: dovevo farvela breve e invece vi ho attaccato la pezza.
Che vi devo dire: è andata. E sono felice.
Sono vivo, più o meno.
Ma che cazzo...