Ho guardato con una certa curiosità alla diatriba che ha scatenato la notizia del debutto online del quadriergastolano Vallanzasca Renato, da quasi quarant’anni ospite delle patrie galere.
Senza voler entrare nel merito della discussione sviluppatasi nei commenti (da queste parti ognuno è libero di dire la propria) ci terrei a precisare perché Vallanzasca è diventato, nel corso degli anni, materia d’interesse quasi feticistico per il sottoscritto.
Se si scrive crime novel a sfondo storico, rimestando nella palta dei misteri de noantri, il tipo di cattivo a cui ci si trova davanti corrisponde a un numero molto limitato d’esemplari: il violento alla Brusca o alla Provenzano, ferino nella sua crudeltà; il violento sognatore (o idealista) – e qui, si noti bene, parlo ancora del movimento extraparlamentare, sia rosso che nero, prima del passaggio alla lotta armata -; e infine l’uomo nero. Quello che non puoi inquadrare. Perché, come nel peggior film di spionaggi di serie Z (questo erano le porcate dell’intelligence degli anni Sessanta-Settanta), il suo operato è coperto da Segreto di Stato. E qui ti tocca immaginare (così nacque Sterling).
Insomma, anche scandagliando la storia recente per costruire della fiction di qualità, il nostro paese non offre granchè. O forse è colpa solo della nostra epica, della nostra limitata capacità mitopoietica, che il male è folle e insensato ovunque, che solo gli americani (o i giapponesi) riescono a costruirci sopra mondi ammalianti.
In questo pattume, la figura di Renato Vallanzasca stravolge ogni tipo d’archetipo.
Non sto parlando né dell’uomo né del criminale, ma dell’oggetto mediatico.
Le imprese di Vallanzasca non sono molto diverse da quelle di dozzine di criminali comuni suoi coetanei.
La vita di quest’uomo, cresciuto ai margini ma nemmeno troppo, non è di certo materia da romanzo.
Ma il Vallanzasca creato dalla carta stampata, il “Bandito dagli occhi di ghiaccio”, il “Bel René”, questo sì che è interessante.
È l’immagine stessa di un’estetica grossolana e spietata che la fece da padrona per tutto il decennio: se in America avevano Bronson, noi avevamo Maurizio Merli. E proprio il caso Vallanzasca rende l’idea di come un bandito possa trasformarsi in un’icona nel giro di tre o quattro editoriali.
Renato stesso ha contribuito ad alimentare il mito. Io credo che all’epoca amasse pensare a se stesso come un divo del cinema.
Certi atteggiamenti vennero esasperati nel prosieguo della sua carriera, ma tutto e sempre in funzione di quell’immagine mediatica che i giornalisti (i pennivendoli, direbbe Renato) regalarono al grande pubblico.
Con tutti i giustificativi del caso, non si parla più della stampa tontarella dell’epoca del caso Montesi. Negli anni Settanta l’Italia era un paese moderno, con un’economia in costante crescita e una maturità editoriale invidiabile (pensate a cos’era la stampa spagnola nel 1975, all’indomani della fine del franchismo).
Eppure…
Eppure è italianissimo il gusto per l’eccessivo, lo smodato.
E’ italianissimo il gusto per il romanzo d’appendice.
Questo tipo di processo mi ha reso molto interessato alla figura di Renato. La sua carriera da divo del cinema fake. Il suo rispecchiare l’Italietta che lo volle mito (pensate alle migliaia di donne che gli spedivano missive d’amore in carcere).
E devo dire che il libro di Massimo Polidoro ha aperto orizzonti d’indagine in tal senso impensabili anche solo dieci anni fa. Su Renato esistevano, lo dissi anche qualche post fa, solo il libro di Bonini, il volumetto dell’Arceri e un capitolo nel saggio di Fasanotti e Gandus.
Poca roba. Intrigante, vero. Ma datata. Quei libri cercavano l’uomo. O magari il criminale.
E ingeneravano dibattiti simili a quello a cui abbiamo assistito su questo blog. Sì, perché se si esclude la dimensione mediatica di Vallanzasca, restano solo l’essere umano e il bandito. E se si sceglie di trovarne simpatico uno dei due ci si mette nei guai. È una palese contraddizione in termini
Renato Vallanzasca è simpatico. Lo si evince dalla sua penna.
Renato Vallanzasca è, al contempo, un assassino. Un pluriergastolano.
E trovar simpatico un ergastolano, ne converrete, è un bel problema.
Ma torniamo a Polidoro: ciò che Massimo ha fatto, nel suo splendido libro, è trascorrere un sacco di tempo in emeroteca. Ha riportato alla luce il Vallanzasca che la stampa costruì ad uso e consumo dei propri lettori.
Certo, ha parlato anche dell’uomo e delle persone che si è circondato. E pure del malfattore.
Ma credo che il recupero del Vallanzasca dei giornali sia il picco più alto dell’opera di Massimo.
Il suo studio ha ridato vigore ai miei.
Ecco perché mi sento di consigliarlo, soprattutto a coloro che hanno curiosità di conoscere la faccia tronfia e troppo truccata – da starlet – dei Settanta.