Mi scrive Gabriella, postando un commento che ci tengo a pubblicare per esteso, nel caso in cui a qualcuno fosse sfuggito:
Sicuro che "Etica criminale",abbia ricostruito la verità ? Si tratta solo della verità di un assassino e nulla più. Si, chiamiamolo con il suo vero nome ASSASSINO...alis R.V.oops, dimenticavo, grazie a lui le mie figlie sono orfane, io sono vedova e lui, ad ogni intervista, orgogliosamente non si pente. Si vergogni lui e si vergogni chi gli da spazio.
Al suo commento, a strettissimo giro, ne segue un altro, molto più diretto:
La cosa brutta di questo paese è che c'è gente come te che idolatra personaggi inutili di cui un paese civile dovrebbe solo vergognarsi; esempi negativi che diventano miti, scrittori che diventano famosi per aver portato alla luci della ribalta gente che avrebbe dovuto solamente essere lanciata nell'immensità dell'oblio. Vallanzasca è solo un criminale, un assassino, uno che se avesse trovato tua sorella, tua madre tua zia sulla sua strada ad ostacolare i suoi biechi progetti non avrebbe esitato un solo istante a premere il grilletto di una delle tante pistole che sono state nella sua disponibilità.
Hai ragione, ciascuno di noi può pensarla come meglio crede, W la democrazia e lo stato liberale ma dopo aver scritto parole impregnate di cotanta cultura mi piacerebbe sapere se saresti stato in grado di esaltare questo " spregevole mito" se ci fosse stato tuo padre, tuo madre o tua sorella nella lista delle sue vittime.
La cosa che mi rammarica è che esistono tante persone, anche più colte di te, che la pensano come te, addirittura peggio, alcuni erano anche terroristi (forse lo sono ancora)....però VIVADDIO...siamo in democrazia!!!
Grazie per lo spazio
Il Postino
Le parole di Gabriella riaprono una questione delicatissima, nodale per chi fa il mio mestiere e si occupa di storia (nera) recente: il rispetto per le vittime.
A lungo mi interrogai sulla questione durante la stesura di CONFINE DI STATO. In definitiva, nel mio romanzo raccontavo la storia di una banda di assassini, doppiogiochisti e farabutti che hanno maltrattato il nostro paese alle spalle degli innocenti. A lungo mi chiesi se fossi sufficiente rendere i colpevoli il più colpevoli possibile per placare in qualche modo il bisogno di giustizia dei parenti delle vittime uccise dalla bomba di Piazza Fontana.
Non mi seppi rispondere e non mi so rispondere ancora oggi.
Di sicuro non mi sono mai pentito di aver fatto iniziare il mio romanzo con i ricordi dei sopravvissuti.
Con le parole di fratelli, sorelle, madri e figli di coloro che pagarono il prezzo più alto per il folle sogno di alcuni delinquenti ammantati d’idealismo.
Nel caso di Piazza Fontana queste persone non hanno uno Sterling con cui prendersela. Per lo Stato Italiano nessuno è colpevole. E questa gente si è anche vista imputare le spese processuali nel maggio del 2005.
Diverso è il caso di Gabriella.
Renato Vallanzasca, condannato a quattro ergastoli, prima di finire dietro le sbarre si è lasciato appresso una scia di sangue. Molti sono rimasti sul selciato per mano sua e dei suoi.
Io non so chi di voi lettori abbia perso una persona cara.
Io, a diciotto anni, persi mio padre. Lo persi in modo assurdo e violento. Una caduta da dodici metri se lo portò via in pochi minuti.
Se vivete in una piccola città saprete come una morte improvvisa diventi di colpo la storia del giorno.
Io e mio fratello ci trovammo, in questura, assediati dai giornalisti locali (forse assediati è una parola eccessiva. Un paio di scribacchini ci ronzarono intorno). Rifiutammo di lasciar dichiarazioni.
Nei giorni successivi su mio padre si scrisse molto. Ed è fisiologico che qualche imprecisione si annidasse negli articoli. Fisiologico: anche adesso che nono sono più così misconosciuto come lo era mio padre allora, ho letto su di me cose straordinarie (tipo che sarei salernitano o che di nome farei Alessandro…).
Be’, signori miei, quelle imprecisioni (cose banali: tipo la professione o le circostanze dell’accaduto) mi fecero male all’epoca. Mi diedero fastidio. Ci rimuginai per giorni.
Posso solo immaginare cosa voglia dire per chi ha perso qualcuno per mano di un delinquente sentirsi raccontare la storia dell’assassino invece che quella della vittima.
E magari sentire parlare dell’assassino come di una rockstar.
Sulla stessa questione, da anni, martellano il figlio di Calabresi (leggete il suo libro) e gli eredi di Moro: smettetela di parlare di come sono morti i nostri padri. Iniziate a parlare di com’erano in vita.
Tutto legittimo e sacrosanto.
Però. Un però rimane, volenti o nolenti…
Se si sceglie di scrivere del malaffare di questo paese, e si sceglie di farlo usando un doppiofondo storico, non si può prescindere dai cattivi, ma soprattutto dall’immagine dei cattivi che ha attraversato gli anni per arrivare fino a qui.
Lungi da me mettermi in cattedra. Io nemmeno ero nato quando il marito di Gabriella perì per mano di Renato e dei suoi. Però non si può ignorare quello che è successo intorno alla figura di Vallanzasca.
Non si può, specialmente se si scrive crime novel, specialmente se si raccontano i Settanta.
Non per la feticistica (e squallida) archeologia del mito del “Bandito dagli occhi di ghiaccio”, bensì per arrivare a comprendere quale fu il folle meccanismo che spettacolarizzò la morte. Che trasformò un criminale in un personaggio da romanzo.
Lo scrissi nel post precedente, lo ribadisco ora. L’informazione, in questo paese, non è mai stata un granchè. Ma è piuttosto imbarazzante pensare all’ingenuità con cui i pennivendoli trasformarono Vallanzasca in divo mediatico.
Se si scende nei meandri di questo meccanismo perverso (lo stesso che trasformò il caso Montesi in un evento da ribalta e lo stesso che ancora oggi ha mutato il caso Cogne in una soap opera di quart’ordine) si conosce un pezzetto in più del marcio di questo paese. Se si riesce a spiegare un’assurdità come questa ai propri figli grazie alle pagine di un libro, allora credo che valga la pena di scriverli ancora, quei libri.
Io credo che Polidoro abbia dato un contributo in questo senso. Le ore passate in emeroteca trasudano dalla pagina.
Nel mestiere di crime novelist il rischio dell’indelicatezza nei confronti di chi non c’è più è sempre in agguato.
Grazie a Dio, la vita di uno scrittore non finisce nelle pagine dei propri romanzi. Grazie a Dio ci sono spazi dove rendere conto del proprio mestiere.
Sembra che faccia l’apologia del libro di Massimo, e invece parlo di me (Massimo non ha bisogno di essere difeso. Si sa difendere benissimo da solo).
L’avrete capito, in Settanta si parlerà (tra le altre cose) della Milano criminale. Ed è impossibile raccontare quel periodo senza parlare dell’ambiente in cui crebbero Vallanzasca e Turatello.
Io in questo paese, nonostante tutto, ci credo ancora. E credo che valga la pena di parlare di tutto il putrido che c’è stato per evitare di non riconoscerlo nel caso ci ricapitasse sotto il naso.
Non credo che l’oblio sia la strada giusta per lasciarsi le cose alle spalle.
Però, si sa, a parlare di certe cose si rischia di essere fraintesi, di fare grossolani errori o di parlare a sproposito.
E talvolta qualcuno può ritenersi offeso dalle tue parole.
Per quel che può contare, io sarò sempre qua, pronto a render conto di ciò che scrivo.