Sono giorni di lavoro intenso per il sottoscritto. Giorni a vivere nei documenti e a spulciare carte di processi, memoriali di trent’anni fa. Ho preso a pieno ritmo a lavorare a Settanta, e uno degli argomenti che devo affrontare, volente o nolente, è l’affaire Moro.
Sul peso che la questione avrà nel mio secondo romanzo, dico poco o nulla. La data di uscita è molto in là (manca poco meno di un anno), e quello che succederà nel libro non sono (per il momento) affari vostri.
O meglio, sono ancora e solo affari miei (e del mio editor), visto che la parte è in piena fase di stesura.
Ci mancherebbe pure che mi metta a spoilerare sull’incompiuto.
Affare di tutti, credo, invece, la memoria civile.
Più rileggo i memoriali di Moro, le lettere alla famiglia, le testimonianze degli ex Br, più è forte la sensazione di dolore, di disagio.
Più mi calo nella testa di Moro, più è intensa la domanda che rimbomba in testa: PERCHE’?
Non voglio disquisire di dietrologie politiche, per quelle ci sarà tempo e luogo nelle pagine del nuovo romanzo.
Quello che mi chiedo è semplice: si poteva evitare di sparare al Presidente?
E con tutta la malafede di cui sono capace, credo che la risposta sia comunque SI’.
Se si ripescano le testimonianze della Faranda, senza cedere troppo il fianco alla suo postumo pentimento “dissociato”, viene da pensare che, anche all’interno della dirigenza della Colonna Romana, alla vigilia del 9 maggio (nonostante la durezza dei comunicati), speranza ce ne fosse ancora.
Non si discute sull’azione dei Brigatisti: la loro è storia criminale. Niente giustifica il rapimento del Presidente. Né le gambizzazioni e le azioni terroristiche precedenti. Figurarsi un omicidio.
Eppure, quello che c’era sul piatto, alla vigilia del massacro, a modesto parere del sottoscritto, era sufficiente per concludere la vicenda senza spargimento di sangue.
A sentire la Faranda (ma pure a sentire Moretti), bastava uno scambio di prigionieri per salvare la vita a un uomo. I prigionieri avevano nome e cognome: Alberto Buonoconto e Paola Besuschio.
A dispetto del muro del silenzio che fece la DC, i socialisti avevano aperto un canale per trattare coi brigatisti. Poca roba, ne sono conscio, sei o sette incontri di Pace (ex simpatizzante BR) con la Faranda e Morucci. Incontri non ufficiali che si risolsero in un nulla di fatto.
Craxi il 30 aprile parlò con il leader socialista francese Mitterand e disse: “Moro può essere salvato; si può arrivare allo scambio uno contro uno; ma a qualcuno occorre del sangue. Quello di Moro giustificherà l’emorragia”.
Uno contro uno. Una vita per una vita. Anzi: nessuna vita sprecata.
Moro, dalla prigione di via Montalcini, così scriveva al collega socialista: “Caro Craxi, poiché ho colto pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi accentuare la tua importante iniziativa…”
Una vita per una vita, e invece…
Cosa chiedevano le BR? Legittimazione politica. E uno dei loro, condannato a otto anni e mezzo, libero.
Erano giusti i metodi delle BR? No. Erano criminali.
Era brava gente quella che chiedeva la liberazione del Presidente. Erano brava gente Craxi e i suoi? Per niente, e il Paese se ne sarebbe accorto presto.
Come non era brava gente la parte di DC che lasciò Moro crepare da solo.
Ma, in un Paese che di lì a qualche anno si sarebbe rubato persino gli spicci degli elettori (e poi ai ladri sarebbe toccato scappare con la coda tra le gambe all’estero), dove sarebbero state fatte leggi ad hoc per parare il culo a privati pieni di debiti, dove, trent’anni dopo, l’indulto avrebbe svuotato le carceri, signori, mi chiedo? La vita di un uomo (un santo? Un uomo per bene? Magari non meglio dei suoi compari, ma pur sempre un uomo) non valeva la scarcerazione di un delinquente comune?
E mi chiedo anche: di cosa aveva paura mamma DC? Se anche avesse formalmente riconosciuto le BR come forza politica, pensate davvero che di lì a poche ore si sarebbe ritrovata dieci parlamentari della stella a cinque punte fianco a fianco a Montecitorio?
Ma andiamo, questo non è un paese di verginelle e non lo era trent’anni fa.
Dove è convenuto (il mio maestro De Cataldo direbbe dove c’è stata convenienza) c’è sempre stato spazio per i riconoscimenti, le braccia aperte, gli “accomodasse”. Per poi voltar gabbana al primo intoppo.
E invece, trent’anni fa, nessuno mosse un dito per salvare una vita.
E adesso, mentre gli ex BR scrivono libri e vanno ospiti ai convegni, e fanno i documentari faccia a faccia con gli ex ministri dell’interno, qualcuno dei DC di allora (indovinate chi…) siede ancora in Parlamento.
Tutto è cambiato per rimanere uguale, nel BelPaese.
L’unica voce immutata è quella della famiglia di Moro. Di sua figlia Maria Fida.
La voce delle vittime: rotta dal pianto.
Anche quella, in Italia, è sempre uguale a se stessa.